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Di Matteo: «Siamo circondati di mafia più di quanto noi possiamo pensare»

Il sostituto procuratore alla DNA: «Quando mi confronto con i giovani cerco di stimolarli a non accettare di diventare gregge»

Pubblicato il: 09/08/2024 – 7:00
di Emiliano Morrone
Di Matteo: «Siamo circondati di mafia più di quanto noi possiamo pensare»

Detto Nino, Antonino Di Matteo, è ritenuto uno dei magistrati italiani più preparati, coraggiosi, autonomi, scrupolosi e simbolici. Sotto scorta da più di 30 anni, è stato membro del Consiglio superiore della Magistratura; ha avuto un ruolo attivo nell’Associazione nazionale magistrati; ha indagato, tra le altre, sulle stragi di mafia che hanno causato la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; si è occupato del processo sulla Trattativa Stato-Mafia e da ultimo è ritornato a lavorare come sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia. Soprattutto, Di Matteo è persona libera, diretta, profonda. Con lui oggi parliamo delle stragi di mafia dell’ultimo scorcio del Novecento, della Trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra, della pedagogia dell’antimafia rivolta ai giovani, del ruolo e della responsabilità del giornalismo nel respingere i tentativi di riscrivere in maniera tranquillizzante la storia della mafia e più in generale quella repubblicana nei termini di contrapposizione tra buoni e cattivi.
Serve una rivoluzione culturale, dice Di Matteo, per mettere all’angolo le mafie; tra cui la ’ndrangheta, che è stata in grado – ci ricorda – di conquistare il monopolio del commercio globale della cocaina prodotta nell’America del Sud.
E questa rivoluzione – sottolinea il magistrato siciliano – deve partire soprattutto dai giovani, che vanno coinvolti con testimonianze di credibilità, piuttosto che con prove di autorevolezza.

Ascolta il podcast

Che cosa può dire agli adolescenti delle stragi di mafia, sino agli epiloghi degli anni ’90, sino all’uccisione di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di altri servitori dello Stato?

«Mi piacerebbe rivolgermi ai giovani incoraggiandoli a non perdere la memoria. Il nostro sta diventando sempre più un Paese senza memoria. Un Paese dove la memoria non viene coltivata, promossa, a mio avviso è destinato a essere un Paese senza futuro».

E quelle stragi sono un pezzo di storia…

«In Italia – quello che non è accaduto in nessuna parte del mondo – ci sono state, nel dopoguerra e fino al 1994, stragi, omicidi di magistrati, ufficiali dei Carabinieri, funzionari della Polizia, politici importanti dei partiti di governo, penso ad esempio a Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, e anche dei partiti di opposizione; penso a Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano. Ci sono state tra il ’92 e il ’94 sette stragi che sono state perpetrate in Sicilia, ma poi, nel ’93, anche a Roma, Firenze e Milano. La settima doveva essere quella programmata per il 23 gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma, dove un’autobomba – che per fortuna non venne innescata per un difetto di funzionamento del telecomando – avrebbe dovuto uccidere almeno 50 o forse più carabinieri in servizio di ordine pubblico allo stadio Olimpico».

Che cosa significa fare memoria?

«Bisogna fare memoria. E fare memoria non può significare soltanto ricordare in maniera emozionale – forse anche, certe volte, pericolosamente retorica – i nostri morti, ma cercare di capire quello che è accaduto. Certamente, la campagna stragista che iniziò nel ‘92 e si concluse nel ‘94 è connotata da una forte motivazione politica: fu una strategia politica attraverso la quale Cosa nostra e le altre organizzazioni mafiose evidentemente intendevano ridisegnare gli equilibri con il potere politico, istituzionale e ufficiale, che erano stati messi in crisi dopo la sentenza del Maxiprocesso».

È fiducioso rispetto all’interessamento degli adolescenti?

«Io spero e credo che gli adolescenti debbano interessarsi, debbano cercare di capire, perché quello è un passato che continua con il nostro presente. E noi dobbiamo sforzarci di capire, di comprendere; anche per evitare che la mafia, come è sempre stato finora, diventi non soltanto un problema di ordine pubblico ma un fattore molto pesante di condizionamento della nostra democrazia, della nostra libertà, della nostra dignità di Paese e di singoli cittadini».

I minorenni di oggi non hanno mai sentito parlare della cosiddetta Trattativa Stato-mafia. Al riguardo lei crede che ci sia una resistenza culturale, un certo riserbo nell’istruzione pubblica oppure una specie di oblio collettivo?

«Guardi, dobbiamo partire, a mio avviso, da una considerazione. La forza delle mafie è sempre stata quella di sapersi rapportare con il potere ufficiale e istituzionale; se del caso anche attraverso dei veri e propri accordi sotterranei. Quando si parla di trattativa tra lo Stato e la mafia, bisogna affondare alle radici di questo concetto, molto in là nel tempo: forse, sino al momento in cui, alla conclusione della Seconda guerra mondiale, lo sbarco degli alleati in Sicilia venne favorito, appoggiato, condiviso dai capi mafia di allora, che in carcere ricevettero un trattamento di favore».

E dopo?

«Io mi sono occupato, insieme ad altri colleghi, di una delle fasi della Trattativa Stato-mafia e voglio dire che, al di là della conclusione dei processi – in primo grado tutti condannati; in secondo grado condannati i mafiosi e assolti gli uomini dello Stato; poi la sentenza della Cassazione, che con un colpo di spugna ha cancellato anche le condanne dei mafiosi – c’è un dato di fatto che nessuno potrà mai smentire. Subito dopo la strage di Capaci, del 23 maggio del ’92, alti esponenti delle istituzioni, alti esponenti del reparto investigativo dei carabinieri, del Ros dei carabinieri, contattarono Vito Ciancimino – sindaco di Palermo, ma già all’epoca mafioso riconosciuto tale per sentenze – e gli chiesero di contattare, a sua volta, Riina e Provenzano per capire che cosa questi volessero per far cessare la strategia dell’attacco violento alle istituzioni, che era cominciata con l’omicidio Lima a marzo del 1992 e poi con la strage di Capaci».

E allora?

«Quindi c’era il sangue dei morti, il sangue delle vittime della strage di Capaci, in particolare sull’asfalto dell’autostrada vicino a Palermo. Lo Stato cercò di capire che cosa volessero per farla finita con quella strategia. E un altro dato di fatto, che è consacrato pure in sentenza definitiva, è che quell’atteggiamento dello Stato convinse Riina e gli altri capi mafia di allora che era quella la strategia giusta; che bisognava continuare e, in quest’ottica, non più soltanto mafiosa, ma terroristico-mafiosa, furono ideate, concepite, organizzate, eseguite le stragi del 1993. Lo Stato, cercando la mafia, aveva cominciato a piegare le ginocchia. In un’ottica di ricatto, la mafia sposa l’obiettivo delle stragi in continente, come diciamo noi siciliani, e quindi a Roma, a Firenze e a Milano, ma non più per colpire singoli bersagli predeterminati, ma con uno scopo terroristico, per gettare nel panico la popolazione».

Oggi che cosa sta succedendo?

«Io credo che quelle pagine sono pagine di storia. E oggi vi è un grande tentativo di rivivere la storia, di presentarla – soprattutto con riferimento al fenomeno mafioso – in termini tutto sommato più tranquillizzanti, più rassicuranti, cioè: da una parte i cattivi, dall’altra parte i buoni che alla fine hanno vinto la guerra contro i cattivi. La storia purtroppo è altra, ed è una storia in cui molto spesso lo Stato e le istituzioni statali hanno accettato, se non addirittura hanno cercato, il dialogo con la mafia, consegnando alle mafie – in questo modo – un’arma più potente di mille chili di tritolo o di migliaia di Kalashnikov: l’arma del ricatto. Io credo che da uomo di Stato, da cittadino di questo Paese, dobbiamo deprecare quello che sta accadendo ora: una sorta di colpo di spugna, di oblio liberalizzato che vuole rappresentare come fandonie e come teoremi di pochi magistrati politicizzati tutti quegli aspetti che invece sono venuti fuori in anni e anni d’indagine su rapporti pericolosi – e sicuramente oltre la legge – tra la mafia e lo Stato».

Di mafia si parla sempre meno. Soprattutto negli ultimi anni, se ne parla nell’ambito di quella che si suole definire «cinematografia sui cattivi». Lei condivide questa ricostruzione?

«Io condivido la sua considerazione. Di mafia si parla poco e mi permetto di dire che si parla male; nel senso che si parla di mafia, magari in maniera anche eccessivamente sovrabbondante, nel momento in cui si considerano gli aspetti cosiddetti folcloristici, comunque gli aspetti di più facile comprensione. Cerco di spiegarmi meglio: abbiamo letto tanto di Provenzano, arrestato dopo 43 anni di latitanza: di che cosa si nutrisse, di quale fosse la sua abitudine nel leggere la Bibbia, di quali fossero i suoi affetti familiari. Abbiamo sentito parlare tanto di Matteo Messina Denaro, catturato dopo 30 anni di latitanza praticamente in casa sua: della sua passione per gli orologi, per il lusso, per gli occhiali da sole e quant’altro. No, noi dobbiamo cercare di capire, in questo senso, che i mezzi di comunicazione, i giornalisti hanno una grande responsabilità e un grande potere. Noi dobbiamo cercare di capire come è stato possibile che Provenzano sia stato 43 anni latitante e Messina Denaro 30 anni latitante, gli ultimi anni praticamente a casa sua. Questo significa volere parlare di mafia».

Che cosa serve?

«Noi abbiamo un disperato bisogno, come Paese, di un giornalismo di inchiesta serio e non di un giornalismo – o comunque di una diffusione – della questione mafiosa soltanto da un punto di vista strettamente criminale. Abbiamo bisogno di un serio giornalismo d’inchiesta. Dovremmo cercare di considerare in maniera assolutamente negativa l’espansione degli aspetti criminali, come avviene in certi film o certi sceneggiati televisivi, che rischiano di esaltarli. Noi dobbiamo cercare di capire il fenomeno e sempre cercare di far capire, anche attraverso la filmografia, la scrittura, che dietro il fenomeno mafioso c’è un condizionamento della nostra libertà e che quindi nessun tipo di comprensione, nessun tipo di affidamento, nessun tipo di giustificazione può accompagnare l’analisi del fenomeno mafioso».

Da magistrato in trincea, che messaggio vuole lanciare ai più giovani, ai loro genitori e ai loro insegnanti, rispetto all’impegno personale sulla cultura e soprattutto sulla pratica della legalità?

«Guardi, quando il lavoro me lo consente, la cosa che mi piace fare di più è andare a confrontarmi con i giovani. Io credo che non è vero che i giovani sono tutti disinteressati, che sono tutti rinchiusi nel loro aspetto egoistico-edonistico della vita, in una visione che sia soltanto ed esclusivamente individualistica. Però i giovani hanno bisogno di punti di riferimento, hanno bisogno che noi adulti possiamo apparire ai loro occhi non come autorevoli ma come credibili. Per cui, quando mi confronto con i giovani, cerco semplicemente, senza abbandonarmi ai paternalismi, di stimolarli a non accettare di diventare gregge; di stimolarli a conoscere per cercare di formarsi la loro idea; di stimolarli a non rassegnarsi; di infondere loro fiducia perché loro possono cambiare il mondo».

Crea, costruisce una relazione, insomma.

«Io sono convinto, per esempio, visto che stiamo parlando di mafia, che il grande auspicio di Giovanni Falcone – ricorderà, lei, la frase di Giovanni Falcone “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio e avrà una fine” – si potrà realizzare soltanto attraverso una vera e propria rivoluzione culturale, prima di tutto. Una rivoluzione culturale che deve partire dai cittadini, che deve partire soprattutto dai più giovani. Una rivoluzione culturale che rovesci il tavolo della mentalità mafiosa».

Dalla cultura alla pratica?

«La mentalità mafiosa può essere sconfitta, ancora prima della mafia militare, soltanto se i giovani abbandoneranno la subcultura del favore, della raccomandazione, dell’appartenenza lobbistica o massonica come strumento per farsi avanti nella vita; soltanto se sapranno anteporre ai loro interessi egoistici l’interesse, la libertà e la dignità di tutto il popolo».

L’istruzione e la conoscenza possono essere decisive?

«Io credo che i giovani in questo momento – e sogno che – abbiano la forza di ribellarsi pacificamente ma di ribellarsi a tutto quello che non va. E credo che negli insegnanti, nei presidi, in tutti coloro che per lavoro o per altro motivo hanno a che fare con i giovani, gravi una grande responsabilità: quella di incoraggiarli. Per esempio, quando – adesso è diventata per fortuna una regola consolidata – nelle scuole ci sono le ore dedicate ai cosiddetti incontri sulla legalità, non bisogna però fermarsi ad un’affermazione di principio né soprattutto ad una sterile commemorazione delle vittime. Sì, anche quello è importante, ma bisogna cercare di far capire ai giovani che cos’è stato, che cos’è il fenomeno mafioso e quanto oggi, oggi, condizioni la vita del nostro Paese. Oggi combattiamo contro una mafia che, per il momento, dico, per il momento, ha smesso di sparare e di fare stragi; sottolineo per il momento: non sono sicuro che sia una scelta irreversibile».

Una mafia molto meno cruenta ma molto più pericolosa?

«Ma è una mafia che da un certo punto di vista è ancora più pericolosa, perché innanzitutto è stata capace di espandersi territorialmente rispetto a prima. È stata capace soprattutto di espandersi da un punto di vista della potenza economica e finanziaria, anche attraverso il controllo ormai importante – soprattutto da parte della ’ndrangheta, quasi monopolistico – del traffico di stupefacenti importati dal Sud America».

Una mafia tentacolare ma invisibile?

«Ecco, questo vorrei fare capire ai giovani: noi viviamo in una fase in cui è più difficile, rispetto a prima, vedere la mafia, ma siamo circondati di mafia più di quanto noi possiamo pensare».

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