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Marlane, per chi suona la campana

«Me l`hanno ammazzato. Era un uomo pieno di vita e me l`hanno ammazzato». Veste ancora di nero Caterina Laprovitera. Nonostante siano passati 23 anni da quando a 56 anni un tumore al polmone ha str…

Pubblicato il: 29/07/2011 – 17:55
Marlane, per chi suona la campana

«Me l`hanno ammazzato. Era un uomo pieno di vita e me l`hanno ammazzato». Veste ancora di nero Caterina Laprovitera. Nonostante siano passati 23 anni da quando a 56 anni un tumore al polmone ha stroncato la vita di suo marito, Vincenzo Marsiglia. Uno dei tanti, troppi, operai della Marlane di Praia a Mare morti per cancro. Nomi che si susseguono uno dopo l`altro. E che ricordano i rintocchi della campana che suona a morto. «Nell`ultimo periodo – racconta Caterina – tornava a casa sempre con dolori, ma il nostro dottore ci diceva che era per via del lavoro. Troppe ore in fabbrica. Ma io lo vedevo sempre peggiorare». Così il primo accertamento all`ospedale “Annunziata” di Cosenza. Poi il viaggio della speranza a Roma. «Non c`è stato nulla da fare. Se n`è andato in sei mesi». Una storia che ricorda tristemente quella dei compagni di lavoro di Vincenzo. Tutti uccisi dal tumore contratto alla Marlane, almeno per il pubblico ministero Antonella Lauri che, prima di trasferirsi in un`altra Procura, ha istruito il processo contro i vertici della Marzotto e contro quanti, prima della società di Valdagno, gestivano lo stabilimento a due passi dal litorale della cittadina tirrenica cosentina. Nei terreni della Marlane il consulente tecnico della Procura di Paola, Rosanna De Rose, ha riscontrato altissime concentrazioni di sostanze cancerogene. Prima tra tutte il cromo esavalente. Un metallo pesante conosciuto per gli effetti devastanti sull`organismo e presente, soprattutto, nei coloranti come quelli utilizzati per la produzione di tessuti della Marlane. In un campione prelevato nello spazio antistante lo stabilimento è stato rinvenuto, inoltre, nel sottosuolo un colorante azoico in una percentuale che il perito tecnico definisce «impressionante»: 646 grammi su un chilogrammo di terreno analizzato. «Sostanze chimiche – scrive nella sua relazione la De Rose – che derivano da processi di lavorazione compatibili con quelli dei processi di tintoria». Ma non solo. L`elenco dei contaminanti rinvenuti anche nelle falde acquifere della zona è lungo: arsenico, cromo totale, rame, zinco vanadio. Solo per citare quelli con le percentuali più alte. Anche queste ritenute compatibili con l`attività svolta all`interno della Marlane. Da qui, per l`accusa, i tumori e le morti tra quanti dal 1969 al 2004 hanno lavorato nella fabbrica praiese. Nel fascicolo processuale se ne contano cinquanta. Ma è una conta per difetto. Nel corso del procedimento penale questa terribile lista si è allungata. C`è chi parla già di 80 decessi. Mentre molti altri operai sono ammalati gravemente di cancro. Circa una sessantina per la pubblica accusa. Uomini e donne che, secondo la Procura di Paola, avrebbero contratto varie forme tumorali a causa delle drammatiche condizioni in cui erano costretti a lavorare. Una tesi che sembrerebbe essere confermata dagli stessi operai. «L`aria era irrespirabile. Non c`erano finestre e i condizionatori d`aria non funzionavano mai» – ricorda Francesco Lista, addetto al reparto di filatura della Marlane dal 1969 al 1988. «Soprattutto durante il turno di notte – dice ancora Lista – le condizioni peggioravano perché gli aeratori venivano spenti ed era veramente difficile respirare». E poi c`erano i lavori di manutenzione straordinari programmati nel periodo di ferie di agosto «che si effettuavano senza alcuna protezione e utilizzando per la pulizia anche l`ammoniaca». Per lui la diagnosi è arrivata nel 2004: tumore maligno della prostata. «Ho subito diversi interventi tra cui l`ultimo al “Cristo Re” di Roma nel corso del quale mi hanno asportato interamente la prostata. E ora vado costantemente a controllo». Stessa patologia ma destino diverso per Mario Perrone, addetto per 27 anni al reparto mistatura della fabbrica tessile di Praia a Mare. «Mio marito è morto nel 2007», racconta la moglie Maria Teresa. Il nome di Mario, però, non compare nella lista dei deceduti, stilata dalla Procura di Paola. La sua morte è sopraggiunta per tumore alla prostata, dopo la chiusura delle indagini. «Quando tornava a casa – dice Maria Teresa – i suoi vestiti erano impregnati di sostanze chimiche che emanavano sempre un puzzo terribile. Lui mi spiegava che si lavorava così. Respirando costantemente queste sostanze». Nel palazzo dove viveva Perrone, erano in sei a lavorare alla Marlane. «Sono tutti morti per tumore». E il rosario continua, accomunando nel dolore intere famiglie. «Mia moglie lavorava insieme a me alla Marlane – racconta Mario Meceri – Lei è morta nel 2006 dopo aver combattuto per anni con un tumore al seno». Anche la moglie di Mario, Iolanda Volpe, non risulta tra i decessi registrati dalla Procura. Anche per lei la morte è sopraggiunta al termine della fase istruttoria. «Io – ricostruisce Meceri – mi occupavo del finissaggio dei tessuti in condizioni assurde. Accanto al luogo in cui lavoravamo c`era il carbonizzo, l`impianto che bruciava i fili di stoffa. La polvere che derivava da questo processo si spargeva dappertutto e ti entrava nei polmoni e noi operavamo senza alcuna protezione. Neppure una mascherina». Condizioni insopportabili per l`uomo di Tortora tanto da farlo desistere dal continuare a rimanere alla Marlane. «Ho visto due miei amici che lavoravano accanto a me morire di tumore. Io non c`è lo fatta più e ho lasciato dopo due anni di attività. E credo di essermi salvato per questa decisione. A differenza di mia moglie». Di Tortora è anche un altro ex operaio della Marlane, Giulio De Francesco, idraulico alla Marlane dal 1963 al 2001. Lui può considerarsi un “fortunato”. La diagnosi per l`uomo di 63 anni che ha chiesto di essere parte civile al processo contro i vertici della Marlane, non è tumorale. L`intossicazione da cloro, infatti, gli ha “solo” compromesso le vie respiratorie e l`olfatto. «Avevo quattordici anni – ricorda Giulio – quando sono entrato in fabbrica. Ho lavorato con turni pesantissimi di 12, 13 ore al giorno prima nel reparto di filatura per poi passare in officina. La nostra attività consisteva nella manutenzione di varie componenti della struttura tra cui le pompe di acido solforico». «Io – afferma questo signore dalla dignità d`altri tempi – ora non riesco a percepire più alcun odore e respiro a fatica». Racconti drammatici che si sommano e dimostrerebbero la scarsa attenzione di chi aveva il compito di vigilare sulla sicurezza nell`ambiente di lavoro. Nelle diciannovemila pagine del fascicolo processuale del caso Marlane emerge che «all`interno dello stabilimento non c`era alcuna separazione tra i vari reparti». Una condizione che avrebbe facilitato il disperdersi nell`area, ad esempio, di coloranti, per lo più derivati di amine aromatiche, utilizzate nel reparto di tintoria almeno fino al 1995. Una situazione che, secondo l`accusa, sarebbe tra le principali cause dell`elevato numero di tumori registrato nella fabbrica tessile di Praia. «Nello stabilimento Marlane – si legge nella relazione tecnica effettuata dal consulente tecnico della Procura di Paola, Giacomino Brancati – in relazione alla tipologia delle sostanze chimiche utilizzate, alle modalità di impiego delle stesse sostanze nei processi lavorativi, alla conformazione degli ambienti di lavoro e alle cautele per la sicurezza dei lavoratori adottate, vi è stata un`esposizione eccessiva dei dipendenti a sostanze nocive potenzialmente cancerogene». Per il tecnico che ha passato in rassegna alcuni casi sospetti di cancro contratto dagli operai della fabbrica di tessuti, «sulla base dell`analisi epidemiologica effettuata, è evidente un nesso di causalità tra le sindromi tumorali sofferte dai dipendenti e i processi lavorativi utilizzati nel ciclo produttivo in corso all`interno dello stabilimento Marlane». Una denuncia forte partita già nel 1999 da un gruppo di lavoratori iscritti allo Slai Cobas che a quelle condizioni disumane non voleva piegarsi e che ha dato il via al processo ora in corso al Tribunale di Paola. Un processo su cui incombe pesantemente il rischio di prescrizione. Contro la quale si oppongono con forza
tutte le parti civili. «È urgente svolgere in fretta questo processo – afferma Corrado Delle Donne, coordinatore nazionale dello Slai Cobas – per evitare che a tredici anni dalle nostre denunce i responsabili di queste nefandezze possano farla franca». «Non è possibile assistere impotenti – gli fa eco Fulvio Aurora, vicepresidente nazionale di Medicina democratica, in prima linea nei processi Thyssenkrupp ed Eternit – alla lentezza dimostrata dalla giustizia in quella che considero tra le vicende più drammatiche che si siano svolte in un`azienda in Italia».

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