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La verità sul destino di Cetta. La Cacciola «è stata assassinata»

REGGIO CALABRIA «Se la causa di morte strictu sensu intesa è innegabilmente quella cristallizzata nel capo di imputazione (più precisamente l`asfissia determinata dall`assunzione di una sostanza al…

Pubblicato il: 16/10/2013 – 12:51
La verità sul destino di Cetta. La Cacciola «è stata assassinata»

REGGIO CALABRIA «Se la causa di morte strictu sensu intesa è innegabilmente quella cristallizzata nel capo di imputazione (più precisamente l`asfissia determinata dall`assunzione di una sostanza altamente tossica acorrosiva), gli esiti dell`istruttoria dibattimentale svolta – a giudizio della Corte – impongono di concludere che la donna non si sia inflitta autonomamente tale atroce morte ma che sia stata, al contrario, assassinata». È netta la conclusione cui la Corte d’Assise di Palmi, presieduta dal giudice Silvia Capone, con Maria Laura Ciollaro e Fortunata Gargano a latere, è giunta al termine del lungo procedimento che vede alla sbarra i familiari dell’ex collaboratrice Maria Concetta Cacciola, per tutti Cetta, morta nell’agosto del 2011 dopo aver ingerito una dose letale di acido muriatico.
Una forma di suicidio troppo strana, che per i giudici non trova conferma negli «atti di indagine, letti unitamente alle acquisizioni dibattimentali ed agli accadimenti immediatamente successivi alla morte della collaboratrice», tanto meno è suffragata «dallo stato d`animo che la stessa Maria Concetta, nei giorni che ne hanno preceduto la scomparsa, manifestava alle persone con le quali si confidava e che riteneva a lei più vicine». Per questo, nonostante la Corte il 13 luglio scorso abbia condannato per maltrattamenti il padre di Maria Concetta, Michele Cacciola, a 6 anni di reclusione, la madre Anna Rosalba Lazzaro a 2 anni e il fratello Giuseppe a 5 anni e 4 mesi, per il reato di istigazione al suicidio gli atti sono stati rispediti in Procura. Per la Corte sono necessarie nuove indagini, ispirate a un diverso capo di imputazione: omicidio.

IL “FILM” DI CETTA
Un colpo di scena nella tragica vicenda, che gli stessi inquirenti nell’ordinanza di custodia cautelare non avevano esitato a paragonare ad un film, interrotto bruscamente dalla morte della protagonista,  Maria Concetta Cacciola, figlia, moglie e donna di mafia che ha pagato a prezzo della vita il suo tentativo di fuga da un mondo in cui sarebbe stata sempre la figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e la moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Era moglie, figlia, sorella dei cosiddetti “uomini di rispetto”, con tutto quello che ciò implica, anche oggi, a Rosarno, provincia di Reggio Calabria. Un fardello che Cetta non riusciva più a sostenere e del quale aveva deciso di liberarsi, iniziando un controverso e accidentato percorso di collaborazione, fatto di slanci e ripensamenti, di violazioni del regime che impone la totale interruzione dei rapporti con i familiari e brusche marce indietro, di fiducia nella scelta fatta e successivi ripensamenti. L’ultimo, le è stato fatale. Incastrata fra la voglia di cambiare vita e l’affetto per i figli rimasti a Rosarno, oggetto di continue pressioni da parte dei familiari che tentano di riportarla a casa – sintetizzano i giudici – «Maria Concetta di volta in volta fornisce ai parenti per farli tornare indietro e convincerli del fatto di non potersi muovere piuttosto che di non valerlo fare (riferisce infatti che il personale del Servizio di Protezione l`avrebbe già spostata)», quelle che  i giudici definiscono solo delle «scuse per prendere tempo».
Ma nei primi giorni di agosto anche quei pretesti cadono. È un momento delicato. Per Vigna, responsabile del servizio centrale di protezione, Cetta «era da intendersi sempre ammessa al programma in quanto, pur essendo stata proposta la revoca da parte dell`AG procedente, la stessa doveva essere ancora deliberata dalla Commissione». Nel frattempo però, ricordano i giudici in sentenza, «i familiari, che questa volta sono meglio informati sulla situazione giuridica della loro congiunta per aver mandato i propri legali direttamente presso la Dda di Reggio Calabria ad informarsi, le dicono di aver saputo dal magistrato (nella persona del Procuratore Aggiunto, dott. Prestipino) che il suo status è quello di donna libera».
Convinta anche dal pianto disperato della figlia che le fanno ascoltare al telefono, Cetta decide di tornare a Rosarno. Non è sicura della scelta, pochi giorni dopo essere tornata a casa ricontatta il Ros per chiedere di essere riammessa al programma, ma non farà mai in tempo a farlo. Quando il  20 agosto viene portata dai familiari all’ospedale di Polistena, i medici non potranno far altro che constatarne la morte. Raccontano di averla trovata riversa in bagno con accanto un flacone di acido muriatico. L’evento viene classificato come suicidio e la Procura apre un fascicolo sostenendo che sarebbero stati i suoi familiari a istigarla. Ma per i giudici della Corte d’assise di Palmi, la situazione è diversa: quello di Cetta Cacciola è un omicidio mascherato da suicidio.

LA CONTROVERSA PERIZIA DEL MEDICO LEGALE
Una conclusione pesantissima, che la Corte motiva con una sentenza lunga e dettagliata, che prende in esame molteplici elementi, a partire da quella perizia medico-legale che ha qualificato la morte di Cetta come suicidio e a cui i giudici non credono tanto da aver disposto per il dottore Antonio Trunfio «la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica in sede per le determinazioni di competenza con riferimento all`attività di consulenza medico-legale dallo stesso svolta nel presente procedimento», perché «la censura che si deve muovere al Trunfio non consiste tanto nell`aver abbracciato la tesi del suicidio (tesi che, di per sé, avrebbe anche potuto essere sostenuta) quanto nel non aver assolutamente preso in considerazione, pur in presenza dei fortissimi elementi di contraddizione evidenziati dalla Corte, nessuna ipotesi alternativa».
Nella perizia di Trunfio, sono tanti, troppi gli elementi che agli occhi della Corte non quadrano. «Inconciliabili – si legge in sentenza –  appaiono a questa Corte le contraddizioni tra quanto in esso attestato e i dati oggettivi risultanti dal materiale fotografico raccolto dallo stesso consulente, oltre che dalle testimonianze di alcuni dei soggetti chiamati a deporre». Per il medico, sul corpo della Cacciola non c’era alcun segno di colluttazione o aggressione, le lesioni visibili sul corpo della donna per Trunfio sarebbero state piuttosto ascrivibili a maldestre operazioni di primo soccorso e trasporto in Ospedale. Una conclusione che non convince la Corte perché a detta dei giudici non spiega alcuni dei segni evidenti sul corpo della donna, come le escoriazioni al viso e le ecchimosi sulle scapole. «Appare molto più verosimile, e compatibile con la presenza delle molteplici lesioni escoriative presenti sulle varie parti del corpo della vittima – affermano i giudici – che la stessa sia stata aggredita, afferrata con violenza per i polsi al fine di bloccarle le braccia e, probabilmente, spinta contro un muro (di qui le ecchimosi alle scapole) per impedirle ogni via di fuga. I segni sul collo sono viepiù ascrivibili al tentativo di tenerle ferma la testa per farla deglutire. E a nulla vale rilevare, come pure fa il consulente, che l`integrità delle unghie della Cacciola deporrebbe per l`assenza di colluttazione e, dunque, di tentativi di difesa; non vi è infatti alcuna possibilità di reazione con le mani o con le braccia da parte di chi viene immobilizzata, magari da più persone, proprio attraverso l`afferramento dei polsi e del collo».
Anche le abrasioni al viso per la Corte non possono essere riconducibili al presunto «violento conato di vomito (a “gettito”) seguito all’ingestione dell’agente caustico». E sono quasi sarcastici i giudici nel sottolineare che «appare quasi superfluo osservare come il vomito sia soggetto alla forza di gravità per cui, in un soggetto che è in piedi, dovrebbe necessariamente cadere verso il basso coinvolgendo la bocca, il mento, ma anche gli indumenti, che sono invece stati rinvenuti in perfette condizioni». Inoltre, appunta la Corte, lo stomaco della vittima non era vuoto, quindi «le lesioni in argomento appaiano invece fortemente indicative della
fuoriuscita di sostanza abrasiva dalla bocca di un soggetto che cercava di fare resistenza ad un`ingestione forzata, probabilmente tenendo le labbra serrate o anche sputando fuori l`acido; mentre la presenza di acqua sul pavimento del seminterrato è del tutto compatibile con il successivo tentativo – evidentemente riuscito – di inquinare la scena di quello che si ritiene a questo punto di qualificare come un delitto di omicidio».

LA BATTAGLIA DI CETTA
Ma a convincere i giudici che quello di Cetta non è stato un suicidio, sono soprattutto le parole e i gesti della giovane, ascoltati e registrati dagli inquirenti e che oggi appaiono a detta della Corte assolutamente inconciliabili con la volontà di togliersi la vita. L’ex collaboratrice, anche dopo il suo ritorno a Rosarno, non era depressa, non era sopraffatta dal senso di colpa o dalla vergogna per aver svelato i segreti della propria famiglia ma «ciò che turbava suo animo da quando, quell`8 agosto 2011, si era fatta convincere a tornare a Rosarno non era vergogna, ma era vera e propria paura. Paura per la sua incolumità, paura di dover affrontare un destino che, suo malgrado, lei sapeva essere già segnato». Maria Concetta Cacciola – dicono i giudici che nel corso della lunga istruttoria hanno avuto modo di conoscerla attraverso le conversazioni che gli inquirenti hanno ascoltato e registrato, «era ottimista, aveva progettato il suo futuro fino al giorno prima di morire, aveva voglia di vivere e, soprattutto, aveva voglia di amare. Ed è stato proprio questo desiderio di vita, malamente interpretato e strumentalmente prospettato quale sintomo della sua “leggerezza” ed instabilità emotiva, il vero motore di tutte le sue scelte. Maria Concetta Cacciola aveva pagato il prezzo di chi – come spesso accade in realtà come quella di Rosarno – ha smesso di crescere alle soglie dell`adolescenza sposandosi all`età di sedici anni ed alimentando l`illusione di poter così ottenere l`indipendenza. Ed è per questo che, ormai trentenne e madre di tre figli, aveva ancora voglia di innamorarsi come una ragazzina».

FRA ROSARNO E LA LIBERTÀ
Sposa bambina e madre adolescente, Cetta fino al 2007 avrebbe sinceramente sperato in un ritorno a casa del marito Salvatore Figliuzzi, condannato a una lunga pena detentiva, ma con il tempo le limitazioni che a Rosarno la sua condizione di moglie di un detenuto le imponeva avrebbero avuto la meglio. «E allora – si legge in sentenza  per lei, l`amore aveva cominciato a nascondersi tra le pieghe di quel sentimento acerbo che può nascere con un colpo di fulmine occasionale come su internet. Poco si è saputo sull`uomo di origine calabrese che viveva in Germania di cui aveva raccontato agli inquirenti. Molto di più, invece, si è detto circa il suo rapporto con Pasquale Improta e Domenico La Camera; il primo conosciuto in una chat room ed il secondo durante il suo soggiorno a Cassano sullo Jonio. Di entrambi Maria Concetta si fidava, e con ognuno di loro sarebbe stata disposta a rifarsi una vita. In loro, di fatto, intravedeva la possibilità di un futuro migliore del suo presente».
Un futuro diverso, migliore che avrebbe voluto dare anche ai suoi tre figli, come la stessa Cetta scrive alla madre dopo essere entrata nel programma di protezione. A lei, cui affida i tre figli, Cetta Cacciola rivolge quasi una preghiera: «Ti supplico, non fare l`errore mio… a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po` di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l`amo, e tu lo sai. Ti supplico non fare l`errore a loro che hai fatto con me… dagli i suoi spazi… se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto. Dagli quello che non hai dato a me. Ora non ce la faccio a continuare, voglio solo dirti di perdonarmi mamma della vergogna che ti provoco ma pian piano mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutti e tutto non volevo il lusso, non volevo i soldi… era la serenità l`amore, che si prova, quando fai un sacrificio ma avere le soddisfazioni a me la vita non ha dato nulla che solo dolore, e la cosa più bella sono i miei figli che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore, che nessuno mi ricompensa».

IL TRIBUNALE DELL`ONORE
Un atteggiamento risoluto che non cambierà – sottolineano i giudici – neanche in quei giorni tormentati di inizio agosto, quando Cetta inizia a valutare l’eventualità di cedere alle pressioni del familiari e tornare a Rosarno.  A testimoniarlo è la conversazione che il 6 agosto – due giorni prima del suo ritorno in Calabria – l’ex collaboratrice ha con l’amica Emanuela Gentile. In quella lunga telefonata, che i giudici in sentenza hanno voluto chiamare per intero, la giovane analizza in maniera estremamente lucida la sua situazione, fornendo uno spaccato formidabile di quel degenerato tessuto sociale in cui si è trovata sino allora a vivere ed in cui teme di essere di nuovo risucchiata per colpa della sua debolezza, delle sue umanissime difficoltà a recidere un legame di sangue; è qui che mostra una crescente consapevolezza delle conseguenze che dovrà affrontare per aver cagionato agli uomini della famiglia una lesione dell`onore che, secondo la distorta visione di chi è contiguo alla mafia, non può essere perdonata».
Un disonore doppio: Cetta non solo ha avuto delle relazioni extraconiugali di cui la famiglia è a conoscenza, ma soprattutto ha collaborato con la giustizia, uno sgarro che al padre – dice all’amica – brucia «più del fuoco e della fiamma». È questo a spaventarla. Sospetta che le rassicurazioni  che ha ricevuto siano solo uno stratagemma per convincerla a ritrattare, ma soprattutto sa quale sia il destino di morte che quella Rosarno di cui la sua famiglia è espressione riserva alle donne come lei. Una convinzione diffusa e radicata che non stupisce l’amica, che pur tentando di rassicurarla sembra esserne perfettamente al corrente. Cetta è indecisa, non sa cosa fare, si chiede «se abbia senso tornare a casa dai suoi figli per vivere al massimo un altro anno e mezzo», perché si dice consapevole della fine che la aspetta, eppure decide di tornare a casa – scrivono i giudici – «forse spinta dalla vana speranza di essere perdonata, di costituire l`eccezione a quella triste regola che ella stessa dimostrava di conoscere così bene; forse convinta di poter far rientro nel programma qualora le cose fossero andate male».

GLI ULTIMI GIORNI A ROSARNO E QUEL FATALE LEGAME CON LA MADRE
Speranze vane. Al suo ritorno la situazione degenera, viene piantonata dalla madre, che ha l’ordine di non perderla di vista, viene portata da un avvocato per mettere a verbale una completa ritrattazione. Cetta ha paura. Ma cerca di reagire, risponde con fierezza agli sguardi e ai commenti della gente, non smette mai di curare se stessa né il suo aspetto esteriore. «Si fa poi fatica ad immaginare – sottolineano i giudici – che una donna prostrata al punto di meditare di darsi la morte fosse andata tranquillamente a farsi la piega ai capelli poco prima di suicidarsi». Allo stesso modo, sottolinea la Corte non sono riconducibili al profilo di un’aspirante suicida i comportamenti di Cetta in quei giorni che precedono il 20 agosto. Contatta i vecchi e nuovi amanti – Pasquale Improta e  Domenico La Camera –  per chiedere aiuto con un cellulare che ha nascosto ai familiari, contatta il Ros chiedendo di rientrare nel programma di protezione. «Non è una donna depressa quella che, nei giorni immediatamente antecedenti alla sua morte, si confida con gli uomini che le stanno accanto, ma una persona che cerca con tutte le sue forze una via di uscita, consapevole di aver commesso un errore non già andando via di casa, ma piuttosto avendovi fatto ritorno», afferma con decisione la Corte.
Uno sbaglio cui Cetta aveva intenzione di rimediare e in fretta, come del resto aveva anticipato alla madre. E forse questo – suggerisce la Corte – le è stato fatale. «La
fiducia che Maria Concetta ha riposto fino al suo ultimo giorno di vita nella mamma, in chi l`aveva generata e a cui si sentiva unita da un legame quasi simbiotico (come emerge dalle intercettazioni ma come hanno avuto modo di dichiarare anche i testi sentiti sul punto), è stato forse il suo errore. Non si intende qui di certo dubitare della sincerità della Lazzaro quando piange disperata sul corpo esanime della figlia durante la corsa in ospedale; ma non si può escludere – alla luce degli elementi raccolti- che ella si fosse resa veicolo, forse anche inconsapevole, della sua fine. Da poi da pensare la reazione del padre Michele, che pure mostra tutta la sua apprensione nelle fasi di soccorso, ma che già in macchina, di ritorno dal pronto soccorso, di fronte al dolore della moglie riesce pronunciare un`unica parola: “Pazienza”. È oltremodo significativo come nessuno dei soggetti captati nelle fasi immediatamente successive alla morte di Maria Concetta, che si era apparentemente suicidata, si sia mai chiesto il motivo di un simile gesto, che è la domanda più frequente che ci si pone in casi del genere; quasi come se tutti, estranei o complici che fossero, sapessero comunque quale era stata la vera sorte della povera ragazza».

«QUELLO DI CETTA È UN OMICIDIO»
Una sorte che per i giudici non è compatibile con l’ipotesi di omicidio in virtù di «elementi logici insuperabili». Per i giudici infatti «il suicidio come gesto estremo, compiuto al culmine di uno stato di prostrazione fisica e psicologica, è del tutto inconciliabile tanto con la personalità solare ed ottimista della donna, così come emersa da ogni atto del presente processo, quanto con il contegno dalla stessa tenuto fino a poche ore prima della morte. Non è una donna depressa quella che il 18 agosto andava con la madre alla ricerca di un parrucchiere, il cui aspetto fisico fino all`intervenuto decesso appariva curato nei minimi dettagli e che continuava a progettare un futuro lontano da Rosarno insieme al suo amante». Cetta Cacciola – spiega la Corte – era una donna che aveva paura e per questo voleva fuggire, due sentimenti che «costituiscono l`espressione più spiccata dell`istinto di autoconservazione dell`uomo, evidentemente inconciliabile con la volontà di infliggersi la morte».
È per questo che – si legge in sentenza, «la conclusione che si impone è che Maria Concetta Cacciola sia stata uccisa. Non è compito di questa Corte, in mancanza di elementi di prova specifici emersi in dibattimento, quello di individuare l`autore o gli autori del fatto; è tuttavia un dato obiettivo e che non può certo essere sottovalutato quello a mente del quale la Cacciola sia andata incontro ad un destino che ella stessa – come le persone a lei più vicine che vivevano nel suo stesso contesto – sapeva essere già segnato».

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