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«’Ndranghetista? Un’offesa»

«Voglio collaborare a 360 gradi». L’interrogatorio del boss Paolo Martino davanti al gip Giuseppe Gennari è un manuale della ’ndrangheta. Il suo nome è sinonimo di De Stefano sin dagli anni Ottanta…

Pubblicato il: 02/07/2011 – 17:20
«’Ndranghetista? Un’offesa»

«Voglio collaborare a 360 gradi». L’interrogatorio del boss Paolo Martino davanti al gip Giuseppe Gennari è un manuale della ’ndrangheta. Il suo nome è sinonimo di De Stefano sin dagli anni Ottanta. Lui lo sa bene e, con il giudice per le indagini preliminari
che ne ha disposto l’arresto, vuole giocarsi la carta dell’uomo “nuovo”, l’uomo che ha già pagato gli errori del passato. Un passato che, comunque, rinnega. Parla addirittura di «travisamento dei fatti» che gli hanno «cagionato tantissime ingiustizie».
Qualche rigo e il “ministro del Tesoro” della cosca De Stefano chiarisce che la sua non è la scelta di un mafioso che vuole «pentirsi». Più che altro una collaborazione «a 360 gradi per l’accertamento della verità che mi riguarda, senza nessuna remora, senza nessuna cosa, senza quella mentalità che gli organi inquirenti mi hanno appioppato». Sembra di assistere a una commedia degna del miglior attore quando il boss pronuncia la parola ’ndrangheta: «Per me la parola ’ndranghetista, se viene rivolta a me, è l’offesa più grave». E rincara la dose per spiegarsi meglio: «Lo stesso che a me mi possono dire, che ne so, pedofilo, la stessa offesa, perché è un qualcosa che abiuro, ho sempre abiurato, e l’ho sempre dimostrato con i fatti, col mio comportamento. Sicuramente, purtroppo io non vengo da Oxford, né da Cambridge, come lei ben sa, perché non ho avuto la fortuna di frequentare queste università, perché a 15 anni ho commesso quello che ho commesso, perché se fossi nato a Bressanone, può darsi, l’ambiente era diverso».
Invece, Martino, è nato a Reggio Calabria, dove era uno dei punti di riferimento della cosca De Stefano. Cugino di primo grado di don Paolino, ha scalato i vertici della famiglia mafiosa di Archi. Una carriera criminale di tutto rispetto, iniziata da minorenne quando, a 15 anni, ha commesso un omicidio per il quale è stato condannato dal Tribunale dei minori. Ne ha fatta di strada, fino a metà degli anni 80, quando ha lasciato la Calabria per trasferirsi al nord Italia. Torino, Genova, Milano. Paolo Martino diventa l’anima imprenditoriale degli “arcoti”, il tentacolo della cosca che ha il compito di curare gli interessi dei De Stefano in Lombardia. Paolo Martino lancia messaggi durante l’interrogatorio di garanzia. Il gip lo ascolta e annota. Se la prende con i magistrati e con i giornali che pubblicano il suo nome collegandolo alla sua imponente figura ’ndranghetistica, fanno riferimento alla sorella, suor Rosa, e alle sue presunte entrature che le avrebbero consentito di essere aggiornata sulle indagini che riguardavano il fratello. «Mia sorella – si difende Paolo Martino – ha contattato qualche persona che anche lei ha qualcosa di utile per la fede, per accudire, purtroppo, queste anime infelici. Chi può conoscere mia sorella, dottore?».
Il boss rilegge davanti al giudice gli stralci dell’ordinanza in cui si fa riferimento a suor Rosa («l’ulteriore appartenenza al medesimo mondo, fatto di terrore e regole profondamente radicate nel tempo, insomma, suor Rosa è una suora, ma non cessa di essere la sorella del boss Paolo Martino»).
«Io non sono un boss, io sono Paolo Martino – si lamenta della Procura che avrebbe omesso di segnalare alcune cose al gip –. Questo non è un gioco, e glielo dimostro quello». Dopo le bacchettate agli inquirenti di Milano e la presunta intercessione di suor Rosa con le sfere celesti, Paolo Martino non risparmia neanche la stampa. «È da due anni che sbattono il mio nome sui giornali, come lei ben sa, con tutto quello che riguarda quest’inchiesta, Il Fatto Quotidiano, non so se lei ha avuto modo di leggere. Addirittura io, secondo loro e secondo la Procura, ho trattato addirittura il prestito fatto da Berlusconi a Lele Mora… Mi rendo conto che sono un mezzo e non un fine, sì, e debbono colpire a chi? Io sono un apartitico. Infatti non sono mai stato coinvolto in cose di chiedere appoggi elettorali, né dalla sinistra e né dalla destra».
E come si addice a un boss del suo calibro, davanti al gip Gennari, Paolo Martino prende le distanze da un contesto ’ndranghetistico che, negli anni 80 in Calabria, e negli ultimi 20 anni in Lombardia, lo avrebbe visto protagonista.
La linea di sangue lo indica come colui che, nelle prime battute della seconda guerra di mafia, era l’alter ego di suo cugino, don Paolino De Stefano. Il figlio di quest’ultimo, Giuseppe, adesso è ritenuto il “capo crimine” di Reggio ed è stato rinviato a giudizio: «Il signor De Stefano Giuseppe, il figlio di mio cugino, è stato imputato con l’operazione Meta, l’ho letto dai giornali, per essere il vertice, con l’accordo di Pasquale Condello e compagnia bella, se è vero non lo so, sono affari suoi, a me non mi riguarda».
Sulle parentele “pericolose” il boss, che ha ammesso di aver incontrato più volte l’attuale governatore della Calabria Scopelliti, puntualizza: «Io all’anagrafe ho dei parenti, avete scritto voi, siamo figli di due sorelle, giusto? Qualcuno dice: “I parenti te li manda Dio, gli amici me li scelgo io”, giusto? Se io avessi avuto un interesse, se avessi avuto un interesse con questa famiglia nel momento in cui c’era l’acquisizione dei territori, di tutto quello che riguardava la Calabria, i poteri mafiosi e compagnia bella, sarei stato il leader massimo di questa struttura, giusto? E perché non l’ha fatto Martino? Perché abiuro il mondo mafioso. Sono cresciuto, purtroppo, carcere, carcere, e ho cognizione».
Punto per punto, Martino contesta gli addebiti formulati dalla Dda di Milano secondo cui «io sono referente, la longa manus, che ho avuto un mandato, la longa manus dei capi. Io sono uscito dal carcere, imputato non so in quanti processi, nel 1998, la bellezza di 13 anni. Ho avuto una sola imputazione, una sola imputazione per dei fatti di Reggio, dove lo stesso procuratore distrettuale Antimafia di Reggio ha chiesto l’archiviazione, poi non ho avuto un solo divieto di sosta».

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