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Scandalo senza argine

Una voragine tra le colline della Presila catanzarese. Un buco nero capace di inghiottire decine di milioni di euro. La vicenda della diga del Melito è la storia di un sogno tramutatosi in incubo. …

Pubblicato il: 29/07/2011 – 16:42
Scandalo senza argine

Una voragine tra le colline della Presila catanzarese. Un buco nero capace di inghiottire decine di milioni di euro. La vicenda della diga del Melito è la storia di un sogno tramutatosi in incubo. Ha rappresentato l`illusione di realizzare uno dei più grandi invasi d`Europa, capace di contenere 100 milioni di metri cubi di acqua, e di creare lavoro in una delle aree più povere d`Italia. Avrebbe dovuto rifornire i rubinetti di 50 comuni. Di quelle speranze, però, non resta nulla, solo qualche container arrugginito e un cratere capace di contenere un`intera città. Era il 1982 quando la Cassa del Mezzogiorno finanziò l`opera con 500 miliardi di lire e l`assegnò al Consorzio di bonifica.

La lente della magistratura
A oltre 30 anni dal primo progetto sta per essere vergata l`ultima e definitiva parola. A scriverla potrebbe essere la Procura della Repubblica di Catanzaro nelle cui stanze è stata incardinata un`indagine sull`eterna incompiuta. Un fascicolo che raccoglie trent`anni di documenti, di annunci, di appalti, di blocchi dei lavori e di nuove promesse. Un`inchiesta che tenterà di dimostrare un`ipotesi semplice quanto tragica. Quella diga, in quel posto, in quel modo, non si poteva fare e tutti (o quasi) i protagonisti di questo dramma lo sapevano. Nelle carte raccolte dalla guardia di finanza (e adesso all`attenzione della magistratura) si parte dagli anni Novanta. Sul cantiere c`è la società pubblica Italstrade. Si scava ma le maestranze dell`epoca notano che qualcosa non va nella tenuta della spalla destra. La soluzione è quantomeno originale, si decide di iniziare a rivestire quell`area con la pietra verde di Gimigliano. Un marmo pregiatissimo e naturalmente costoso. Ma la lussuosa opera non andrà avanti. Nel 1993 il ministero dell`Ambiente dispone la sospensione dei lavori perché la Valutazione di impatto ambientale è carente. L`Italstrade fa le valigie e abbandona arbitrariamente il cantiere. Per dieci anni tutto resta immobile. Solo nel 2001 si torna a parlare della diga quando la suprema corte di Cassazione dichiara il Consorzio di bonifica titolare del progetto. Bisognerà comunque attendere il 22 luglio del 2003 per tornare a parlare di lavori. In quella data, infatti, l`Astaldi, che nel frattempo ha acquisito l`Italstrade, sigla l`atto transattivo con il Consorzio. Il governo dell`epoca, guidato da Silvio Berlusconi, mette a disposizione 262 milioni di euro (i vecchi 500 miliardi di lire). Durante l`estate l`annuncio: i lavori riprenderanno. E infatti a metà settembre di quell`anno i mezzi e gli uomini dell`Astaldi riaprono il cantiere. La previsione è di chiudere l`opera entro il dicembre del 2009 con un costo complessivo di 167 milioni di euro. La gioia, però, dura poco. Gli interrogativi già sollevati dalla Italstrade tornano a serpeggiare nel cantiere. L`impresa fa effettuare degli studi e nuovi rilievi. I suoi tecnici concludono ponendo seri dubbi sulla resistenza della spalla destra e arrivano a mettere in discussione l`intera fattibilità dell`opera. Si decide di interrompere i lavori e la ditta chiede al Consorzio di andare in arbitrato, come previsto dal contratto d`appalto, per redimere le controversie tecniche. I rapporti tra Astaldi e Consorzio si interrompono bruscamente. Da questo momento in poi la polemica con il presidente del Consorzio, Grazioso Manno, sarà rovente. Ad aprile 2006 si instaura l`arbitrato, solo pochi mesi prima, invece, una variante d`appalto sposta la fine dei lavori al gennaio 2010 e fissa l`importo a 169 milioni di euro. Il 24 aprile 2007 due dei tre arbitri, gli ingegneri Carlo Greco e Sergio Olivero, depositano le loro conclusioni. Un documento che adesso fa da chiave di volta nell`architettura dell`inchiesta giudiziaria. Rispondendo ai quesiti, i due esperti spiegano che «il progetto esecutivo richiede una significativa rielaborazione per le opere di scarico in sinistra dell`invaso, per il cunicolo di monte e, soprattutto, per i problemi della stabilità del versante e della spalla destra della diga». In sintesi, i dubbi dell`Astaldi trovano conferma. Ma il colpo di scena è dietro l`angolo. Il Consorzio rescinde il contratto con l`impresa. Si finisce in tribunale. Il giudice dà ragione all`Astaldi e il Consorzio è condannato a risarcire 37 milioni di euro.

Interviene l`antimafia
Nonostante la condanna, Manno tira diritto. E quando l`Astaldi, nel gennaio 2008, abbandona il cantiere, è già pronto il sostituto. Per 19 milioni vengono appaltati gli interventi di completamento delle gallerie e altre opere minori. Nonostante il ricorso di un`altra ditta calabrese, i lavori vengono affidati alla Safab. Entro 20 mesi le opere dovrebbero concludersi. Occorrerà attendere comunque il marzo del 2009 per vedere gli operai sul cantiere. I problemi continuano. I sindacati parlano di lavori a singhiozzo con lunghi periodi ffdi pausa. La diga del Melito diventa così il «cantiere fantasma». Un anno dopo l`area è in completo stato di abbandono. Lo stesso Manno ammette: «Ho deciso di arrendermi! Mi sono convinto che è una battaglia persa». L`ultima flebile speranza di rivedere la Safab sul cantiere si spegne quando il prefetto di Roma rilascia un`informativa antimafia negativa nei confronti della società. Il provvedimento riporta gli stretti rapporti intrattenuti dai vertici della società con l`imprenditore gelese Sandro Missuto, arrestato il 2 luglio del 2009 nell`ambito dell`operazione antimafia “Cerberus” con l`accusa di aver operato come prestanome del defunto boss gelese Daniele Emmanuello.

L`ultima tegola
La situazione attuale è disperante: l`indagine della magistratura, i problemi della ditta aggiudicataria, il progetto di nuovo fermo nel porto delle nebbie del ministero e l`Astaldi che ha pignorato i denari dopo la vittoria del concordato. La pietra tombale sul sogno della diga dovrebbe arrivare a giorni. Nel mese di luglio infatti scadono gli espropri dei terreni su cui doveva sorgere la diga. Zolle di terra che erano state acquisite per pubblica utilità. Un fine del tutto disatteso e quindi quell`area potrebbe tornare a disposizione dei vecchi proprietari. Sono passati oltre 30 anni, sono stati spesi circa ottanta milioni di euro ed è stato completato appena il 10% dell`opera. Anche i sindacati adesso temono la fine. Gli ultimi a cedere sembrano essere quelli della Cgil. La festa dei lavoratori, in provincia di Catanzaro, ha avuto come cornice il “cratere” del Melito. Una marcia per il lavoro sui luoghi della disperazione. Una location inusuale e scomoda ma fortemente voluta dal segretario provinciale della Cgil, Giuseppe Valentino. Nonostante le difficoltà logistiche è stato un successo. «L’elemento che ha destato maggiore soddisfazione – spiega Valentino – è stata la presenza dei sindaci del comprensorio che hanno dimostrato una condivisione dei motivi che stanno alla base della scelta del luogo: la diga del Melito, la grande incompiuta della provincia di Catanzaro, che da circa 40 anni aspetta di essere iniziata e che nonostante il denaro che è stato impegnato e speso non ha prodotto occupazione e sviluppo per come più volte invocato». Ma cosa si augura adesso il sindacato? «Vorremmo che la politica desse delle risposte, facesse chiarezza su cosa è stata la diga del Melito e su cosa sarà in futuro. Quell`opera interessa ancora? Se è così la politica decida di affidare la gestione a chi potrà finalmente portare a termine quei lavori». L`ultima riflessione del segretario è sul clima sociale: «Tra i tanti lavoratori che si rivolgono a noi c`è rabbia e disperazione. Siamo a un passo da una frattura irreversibile».

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