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Non siamo la Norvegia

I tragici fatti di Oslo e Utoya hanno ridestato l’interesse della stampa sul sistema giudiziario norvegese e sulle differenze tra quello ed il sistema italiano, rimarcandone ora la superiorità di q…

Pubblicato il: 02/08/2011 – 22:00
Non siamo la Norvegia

I tragici fatti di Oslo e Utoya hanno ridestato l’interesse della stampa sul sistema giudiziario norvegese e sulle differenze tra quello ed il sistema italiano, rimarcandone ora la superiorità di quello italiano quanto a rigore nei confronti delle forme più gravi di criminalità organizzata e no, ora invece la superiorità di quello norvegese, per la mitezza delle pene, il modello carcerario ispirato al principio del rispetto della dignità umana e della rieducazione del condannato. Non c’è dubbio che vi è del vero sia nell’uno che nell’altro caso; e non potrebbe essere che così dal momento che ogni ordinamento va riguardato nel contesto storico, culturale, ambientale e…criminale nel quale si è formato. Nel dibattito in corso, c’è poi chi coglie pretesto per una dura polemica sull’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario (e non di un fantomatico codice non meglio individuato), che avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un regime illegale, «in sostanza la tortura», assimilabile a misure medioevali. Al confronto, la Norvegia sarebbe distante «un oceano, un’era geologica, un abisso di civiltà».
Pur senza polemica sul carattere ideologico e strumentale di simili affermazioni, alcune considerazioni si impongono, al fine di fare ridiscendere il confronto dall’astrattezza dei principi teorici al terreno, accidentato, della realtà storica contingente.
Il sistema penale norvegese (e più in generale scandinavo) risente della situazione (relativamente) tranquilla di quei Paesi, nei quali manifestazioni criminali cruente sono assai rare e quando avvengono sono riconducibili più a situazioni patologiche individuali che non a forme di criminalità organizzata (che pure esistono anch’esse e sono forse sottovalutate). Il nostro diritto penale, sostanziale e processuale, risente invece di ben altro clima e più precisamente della presenza sul nostro territorio di mafie nazionali, storiche, strutturate, che dopo avere per decenni dominato e sconvolto la vita e la storia delle regioni meridionali, lasciandosi dietro migliaia di vittime, oggi stanno occupando il resto del Paese, sospinte come sono dalla ricchezza di cui dispongono per effetto dei profitti dei traffici di droga e dal condizionamento del contesto politico, economico e sociale in cui operano.
Il regime detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis non è inserito nel nostro codice penale perché non ha carattere sanzionatorio, non è insomma una pena aggiuntiva a quella irrogata dal giudice con la sentenza di condanna. È più semplicemente una misura di prevenzione, diretta, appunto, a prevenire pericoli per l’ordine pubblico, costituiti dalla possibilità che determinate categorie di detenuti (e precisamente gli esponenti apicali di mafia e terrorismo) possano, dal carcere, continuare a comunicare con le organizzazioni di cui facevano (e continuano a fare) parte, per programmare, gestire, organizzare nuove attività criminali, nuovi delitti, attentati, traffici illeciti. Il blocco delle comunicazioni impedisce alle organizzazioni di continuare ad usufruire del contributo ideativo, organizzativo e carismatico dei loro capi, e, nel contempo, impedisce al detenuto di rafforzare la propria posizione all’interno e all’esterno qualora gli fosse consentito di proseguire nel suo ruolo di vertice. Si tratta di pericoli astratti, di mere ipotesi? Non si direbbe, se si fa riferimento alla ricca produzione giudiziaria, degli anni 70, 80 e 90 del secolo scorso, dalla quale si apprende che nelle carceri si “battezzavano” nuovi affiliati, si conferivano le “doti”, si stabilivano alleanze operative tra detenuti appartenenti ad organizzazioni diverse, si organizzavano omicidi e stragi, si godeva insomma di una libertà d’azione impensabile, che rendeva del tutto virtuale la presenza delle sbarre.
Tutto questo, dalla metà degli anni 90 in poi si è drasticamente ridotto, ed in molti casi si è reso impossibile, tanto da provocare in molti casi destabilizzazione e crisi all’interno delle mafie (in particolare di Cosa nostra), collaborazione da parte di esponenti di vertice, con risultati positivi. Non è neppure vero che al “carcere duro” vengano assegnati tutti i condannati per mafia, ma solo, come si diceva, gli esponenti di vertice. Il numero complessivo si aggira intorno alle seicento unità, in percentuale meno dell’1% dei detenuti. E non sembrano grandi cifre. Si tratta di un regime incostituzionale? Sinora le sentenze della Corte costituzionale che si sono occupate della materia, pur individuando alcuni aspetti critici (che hanno poi formato oggetto di puntuali revisioni legislative), hanno sempre riconosciuto la compatibilità del regime con le norme della Costituzione. Anche la Corte di giustizia europea, più volte interpellata, ha riconosciuto la conformità alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo dell’istituto in sé (con interventi censori con riguardo ad aspetti marginali, come la censura sulla corrispondenza), richiamando la specificità della situazione italiana e la necessaria prevalenza delle esigenze di ordine e sicurezza a fronte del persistente pericolo di collegamenti con la criminalità organizzata. Quante stragi sono state evitate, quanti regolamenti di conti, quante vendette trasversali, quanti traffici di droga e di armi sventate, quanti inquinamenti di processi e intimidazioni di testimoni? È proprio vero: basta leggere le cronache di nera dei giornali per capire che davvero  la Norvegia è lontana, molto lontana.
* Magistrato

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