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L`inerzia interrotta dalla commissione parlamentare Antimafia

A distanza di sei anni dal delitto Fortugno, sembra non essere mutata la condizione di vera e propria “emergenza democratica” che ha caratterizzato fin dall’inizio questa drammatica pagina della st…

Pubblicato il: 16/10/2011 – 21:32
L`inerzia interrotta dalla commissione parlamentare Antimafia

A distanza di sei anni dal delitto Fortugno, sembra non essere mutata la condizione di vera e propria “emergenza democratica” che ha caratterizzato fin dall’inizio questa drammatica pagina della storia calabrese.
A rinnovare il senso di precarietà e di incompiutezza che ha avvolto l’intera vicenda sul piano giudiziario, con la mancata individuazione dei mandanti di terzo livello, sono gli sviluppi registrati negli ultimi mesi. Quelli legati all’informativa sui dialoghi intercettati al boss Mico Libri che, pur risalendo al 2005, è stata messa da parte, chiusa in un cassetto e rispolverata solo dopo la sua pubblicazione da parte di alcuni organi d’informazione: se ne sono occupati il blog dell’attento Roberto Galullo de Il Sole 24 Ore e Il Fatto quotidiano, oltre a noi del Corriere della Calabria.
Quanto accaduto negli ultimi mesi apre uno squarcio ancora più inquietante sulla tragica uccisione del vicepresidente del consiglio regionale. Ma, soprattutto, porta ad una conclusione che deve far riflettere: in questo caso, non è stata la magistratura a esercitare l’azione penale per tentare di fare luce su un delitto eccellente che, per dirla con il vicepresidente del Senato Vannino Chiti, «non può essere deciso da un caposala». A dare impulso alle indagini, non sono stati né gli ufficiali della polizia giudiziaria, né le Procure. È stata la commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Beppe Pisanu, che ha svolto un vero e proprio ruolo di supplenza. Così, si è arrivati, prima dell’estate scorsa, all’ufficiale richiesta di chiarimenti alla Dda reggina, sollecitata dai senatori De Sena e Li Gotti. E alla decisione, da parte dell’organismo bicamerale, di avviare le audizioni di magistrati e investigatori proprio per chiarire i tanti aspetti che ancora non quadrano. In questo contesto, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, di fronte all’ennesima richiesta della verità da parte della vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà, ha fatto sapere che nei prossimi giorni ci saranno novità sul fascicolo ormai chiuso.
Fino a quando gli atti non saranno resi pubblici, resteranno i dubbi sui contenuti di quell’indagine. Sarà un caso che, dopo essere stata trascurata, considerata irrilevante e pressoché ignorata per un lustro, l’informativa all’improvviso sia divenuta talmente tanto importante, da trasformarsi in oggetto di indiscrezioni, voci e bisbigli, tendenti tutti a screditarne il contenuto?
Quelle voci, a un vaglio serio, non reggono. Non possono reggere. Perché, se il Fortugno di cui parlava Mico Libri nella sua residenza dorata di Prato fosse stato un impiegato del Comune di Reggio Calabria, cosa c’entrava il «bombardamento del governatore Loiero» di cui si legge nel rapporto insabbiato? Peraltro, lo stesso Libri parlava di un «omicidio che fa rumore». Di «una cosa grossa» con «imprevedibili conseguenze» che sarebbe avvenuta «verosimilmente nella Locride». A quale Fortugno avrà mai fatto riferimento, il boss: a un ignaro dipendente dell’ente locale reggino?
E poi c’è il riferimento cronologico. Il 13 ottobre 2005, il guardaspalle di Libri, Salvatore Tuscano, diceva: «Da lunedì in poi ridiamo». Già, da lunedì: il 17 ottobre. Quando sulle prima pagine di tutti i quotidiani nazionali campeggiava la notizia di un delitto eccellente in Calabria. Cinque colpi di pistola che avevano ammazzato non un dipendente comunale, ma Franco Fortugno.

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