CROTONE Ha sciolto sua moglie, Lea Garofalo, in cinquanta chili di acido, dopo che lei aveva deciso di denunciare le attività illecite di un clan del Crotonese. È considerato dalla Procura di Milano il mandante di uno degli omicidi più efferati degli ultimi anni. Un delitto catalogato nell`immaginario collettivo come crimine di `ndrangheta. Lui, Carlo Cosco, è sotto processo insieme ad altri cinque nel capoluogo lombardo. E lo Stato gli pagherà l`avvocato. Perché è povero (ha dichiarato un reddito inferiore alla soglia di 10.628 euro) e, soprattutto, perché nell`accusa è caduta l`aggravante mafiosa. Le due circostanze, insieme, permettono all`imputato di ottenere il gratuito patrocinio. Così la sua difesa, affidata a un noto penalista milanese, sarà pagata dai cittadini.
Carlo Cosco, ritenuto organico all`omonima cosca di Petilia Policastro, è stato rinviato a giudizio per omicidio premeditato e occultamento di cadavere, ma non per motivazioni legate alle rivelazioni di Lea Garofalo sugli affari della `ndrina crotonese. Così inquadrato, il delitto che ha sconvolto l`intero Paese, sarebbe un omicidio “normale”, legato alle dinamiche familiari, alle continue liti in casa. E non alla volontà della donna di emanciparsi dal substrato mafioso e denunciare.
Un quadro, quello che si appresta a descrivere il processo, molto diverso da quello emerso dalle indagini. La rete di relazioni della famiglia Cosco e, di conseguenza, il contesto in cui è nato l`omicidio, sembrerebbero tutt`altro che “normali”. I fratelli Cosco, infatti, sarebbero esponenti della omonima cosca di Petilia Policastro, nel crotonese. Quartier generale della famiglia sarebbe stato un palazzo di proprietà dell’Ospedale Maggiore ma occupato abusivamente. Qui i tre fratelli avrebbero gestito gli affari legati al settore edilizio, al traffico di droga e ai subaffitti delle case popolari. Cose di cui Lea aveva parlato con i magistrati prima di essere torturata e uccisa.
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