RIZZICONI Non basta un allenamento per vincere una partita. Chi pratica uno sport sa bene quanti sacrifici occorrano. Se poi si tratta di una sfida difficilissima, come quella della lotta alla ‘ndrangheta, di impegno e di abnegazione bisogna profonderne di più. E farlo per anni.
Ma una sgambatura può anche trasformarsi in una prima – seppur piccola e parziale – vittoria. È quella messa a segno a Rizziconi, dove la presenza di migliaia di persone festanti, che inneggiavano alla legalità e intonavano a squarciagola l’inno di Mameli, ha rappresentato il «calcio alla criminalità» chiesto da don Luigi Ciotti, presidente di Libera.
A scendere in campo, su un terreno confiscato ai clan, è stata la Nazionale azzurra. Non una delegazione, di quelle che saltuariamente partecipano a iniziative di impegno civile, ma la squadra al gran completo: da Buffon a Balotelli, da Pazzini a De Rossi, dal commissario tecnico Prandelli a Gennaro “Ringhio” Gattuso, che non sta giocando a causa di un problema fisico serio ma non poteva mancare nella sua Calabria.
I campioni dell’Italia hanno giocato su quel campo di calcio a cinque che le cosche non volevano far sorgere lì, perché quel terreno era «cosa loro». Il sequestro, la confisca, poi la realizzazione dell’impianto. Un primo danneggiamento, la ricostruzione, i nuovi danni e gli avvertimenti. Alla fine don Ciotti dice basta. A Bologna, nel luglio scorso, parlando della «zona grigia nello sport», lancia una provocazione che Cesare Prandelli raccoglie e trasforma in una promessa da onorare: portare a Rizziconi la Nazionale e far giocare – sì, “giocare”, beffa insopportabile per gli ‘ndranghetisti – fuoriclasse, campioni del mondo e giovani dal sicuro avvenire.
La magia dello sport fa svanire la paura dei boss, l’omertà, la logica del compromesso. In un Comune sciolto e commissariato, definito «ad alta densità mafiosa», i capibastone questa volta non hanno né potere da imporre né interessi su cui “mediare”, blandendo e minacciando. Via, scacciati via dalle parate di Buffon, dai pallonetti di De Rossi, dalle rovesciate di Marchisio e dalla straripante potenza di Balotelli. Scherzano in campo, gli azzurri, lontani dallo stress dell’agone ufficiale. Ridono in faccia ai boss. La gente applaude, incita, poi, a fine esibizione, corre a bordo campo a caccia di autografi. I modelli di riferimento sono loro, i calciatori, non gli uomini d’onore e i santisti. Vince la voglia di legalità, ma non lo Stato, sferzato, frustato da don Ciotti che dice: «Il vero problema non è questo momento di festa, di incontro e di rinnovata consapevolezza sociale. Il problema è dare continuità a gesti e segni così importanti. L’Italia parla da 150 anni di lotta alla mafia ma le cose non cambiano. Allora dobbiamo chiederci perché. Qui c’è un nodo culturale, ma c’è anche un nodo politico, perché la lotta alla mafia si fa a Roma, si fa in Parlamento, si fa con leggi giuste, dalle politiche sociali a quelle giovanili, dal sostegno alle famiglie al lavoro, di cui la Calabria ha fame». Affondi pesanti, che squarciano il velo di ovatta di questa bella giornata di sole in cui ai colori dei ragazzi fa da contraltare il grigione di qualche onorevole parruccone. Le questioni in ballo sono troppo importanti per lasciarle alle banalizzazioni dell’antimafia delle targhette e al qualunquismo e all’ipocrisia di certa politica: un autogol che a Rizziconi non è stato commesso. L’allenamento è riuscito: poca fatica per i muscoli dei calciatori, tanto lavoro fuori dal rettangolo verde. La legalità è un esercizio faticoso: bisogna darci dentro, per vincere.
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