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«La moglie del boss latitante è l`alter ego del capo»

REGGIO CALABRIA Qual è il ruolo della donna all’interno della ‘ndrangheta? E quale la sua importanza per il mantenimento degli equilibri, del potere maschile e della perpetuazione di simboli e rego…

Pubblicato il: 29/11/2011 – 15:45
«La moglie del boss latitante è l`alter ego del capo»

REGGIO CALABRIA Qual è il ruolo della donna all’interno della ‘ndrangheta? E quale la sua importanza per il mantenimento degli equilibri, del potere maschile e della perpetuazione di simboli e regole interne? Domande che sono state il filo conduttore del convegno “L’altra faccia della ‘ndrangheta”, organizzato dalla fondazione “Marisa Bellisario” e celebrato a Palazzo Campanella. Il titolo è una parafrasi delle affermazioni del sostituto procuratore della Dda di Reggio Giuseppe Lombardo, secondo il quale «la moglie del boss latitante è l’alter ego del capo, ne assume di fatto il posto. Non si possono più fare indagini moderne trascurando l’altra metà del cielo». Parole riprese da Lella Golfo, presidente della fondazione e deputata Pdl: «Gli esperti concordano che le donne di ‘ndrangheta sono ormai donne istruite, che trasferiscono i latitanti e trattano l’acquisto di armi, gestiscono conti correnti, fanno operazioni finanziarie, vigilano sulle estorsioni, creano imprese. E, soprattutto, sono donne che educano i loro figli alla vendetta, che trasmettono loro i codici mafiosi. Madri che offrono all’esercito della ‘ndrangheta una generazione cresciuta nell’illegalità e che nell’illegalità cerca e trova il proprio futuro». Ad ascoltare attento, un auditorium composto per la stragrande maggioranza dagli studenti reggini. All’incontro erano assenti gli ex ministri di Interni e Giustizia, Roberto Maroni e Nitto Palma. Mentre Anna Maria Cancellieri e Paola Severino, le donne che adesso occupano i due dicasteri, hanno inviato le loro lettere di congratulazioni. Non sono mancate, comunque, personalità politiche di spicco. Su tutti, il governatore della Calabria. Ray-ban molto cool e tablet d’ordinanza, Peppe Scopelliti siede accanto al procuratore capo Giuseppe Pignatone, e la scena non può non suscitare curiosità. Scopelliti, infatti, dialoga amabilmente con il capo dell’ufficio che gli ha da poco notificato un avviso di garanzia per falso in atto pubblico (si indaga sui conti truccati dei bilanci di Palazzo San Giorgio) e che il 15 ottobre 2006 dispose le intercettazioni del Ros che registrarono la presenza dell’allora primo cittadino di Reggio alla festa dei coniugi Barbieri, genitori di imprenditori in odore di ‘ndrangheta. Oltre al consigliere comunale Manlio Flesca, al ricevimento di Villa Fenice a Gallico quel giorno erano presenti anche i boss Cosimo Alvaro e Pasquale Buda. Il governatore interviene al dibattito, mostrando il suo rammarico per l’assenza di figure femminili all’interno del consiglio regionale: «Una carenza a cui abbiamo rimediato con la nomina di Antonella Stasi come vicepresidente della giunta». Poi, ancora, sulla figura della donna nelle cosche: «Hanno un ruolo diverso rispetto al passato, adesso le mogli e le madri sono passate direttamente alla gestione dei clan». Scopelliti ama parlare di «modelli» e lo fa anche in questa occasione: «Dobbiamo dare modelli vincenti ai nostri giovani, le istituzioni devono trasmettere messaggi di fiducia. Bisogna partire dalle scuole. La lotta alla ‘ndrangheta non la possono fare gli altri per noi». Dopo la proiezione di un documentario sulla vita di Marisa Bellisario (uno dei primi prototipi italiani della donna manager: seppe risollevare le sorti della Italtel; prima donna nel consiglio di amministrazione di Confindustria), il convegno è proseguito con la presentazione della ricerca di Alessandra Ghisleri di Ad Euromedia Research. Dall’indagine, condotta su campione di mille persone di tutta Italia, emergono le impressioni diffuse sulle donne di ‘ndrangheta: «L’immagine che la maggioranza associa a queste figure femminili – commenta Ghisleri – è quella che immortala le mogli dei boss arrestati che inveiscono contro le forze dell’ordine e che difendono l’onore della propria famiglia». Secondo il 35,8% degli intervistati, inoltre, la donna diventa parte della struttura criminale non tanto per una scelta, ma per i condizionamenti del contesto di illegalità in cui vive, e solo il 4,2% dei meridionali ritiene che si tratti di una decisione frutto della volontà femminile. Il congresso ha dato spazio anche al confronto, in una tavola rotonda moderata dai giornalisti Safiria Leccese di Studio Aperto e Francesco Guidara di Class Cnbc. È in questa occasione che il procuratore Pignatone passa in rassegna molte esperienze, positive e negative, delle donne dei clan, dalle storie delle “reggenti”, che sopperiscono all’assenza dei mariti latitanti o in carcere, a quelle delle collaboratrici di giustizia, costrette a fare scelte dolorose molto spesso anche per fare il bene dei loro figli. Una realtà che Pignatone conosce bene, come sottolinea anche Alessandro Nicolò, vicepresidente del consiglio regionale: «Il lavoro coordinato da Pignatone ha completamente messo a nudo un quadro indiziario in cui, contravvenendo uno storicizzato assunto sociologico secondo cui le donne all’interno delle famiglie di mafia avevano solo cura della prole, invece oggi ricoprirebbero ruoli sempre più attivi nelle dinamiche criminali travalicando l’antica posizione di custode del nucleo famigliare». Gli studenti hanno poi potuto ascoltare le riflessioni sul tema dell’avvocato penalista Paola Balducci, del professore Francesco Manganaro dell’università Mediterranea, del direttore per la vigilanza bancaria Stefano Mieli, del dirigente scolastico Giusy Princi e di Simonetta Matone, vicecapo del dipartimento amministrazione penitenziaria. È proprio la Matone a chiarire la funzione femminile all’interno delle dinamiche mafiose: «Hanno un ruolo fondamentale nell’assistenza ai latitanti; nell’andare avanti e indietro dal carcere; nel creare rete. Sono le “Sorelle d’omertà”, laddove omertà vuol dire ovviamente coprire dei crimini».

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