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Uccise un giovane per uno sgarro, arrestato

REGGIO CALABRIA «L’offesa, anche minima, se rivolta al rampollo di una famiglia “intoccabile” deve essere vendicata con la massima spietatezza perché questo è imposto dalla necessità di salvaguarda…

Pubblicato il: 12/01/2012 – 12:06
Uccise un giovane per uno sgarro, arrestato

REGGIO CALABRIA «L’offesa, anche minima, se rivolta al rampollo di una famiglia “intoccabile” deve essere vendicata con la massima spietatezza perché questo è imposto dalla necessità di salvaguardare il “prestigio criminale” dovuto al nome e il metus del nome stesso ingenerato nei terzi». Una regola di ‘ndrangheta che il gip ha riportato nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere che ha colpito il giovane Antonino Perla. La stessa regola che ha causato la morte di Eduardo Bruciafreddo ucciso il 3 agosto 2010 a Ravagnese, nella periferia sud di Reggio Calabria. Un passato di droga, un matrimonio finito e frequentazioni pericolose. Bassa “macelleria” reggina dove anche il minimo sbaglio può essere pagato con la vita. È quello che è successo a Bruciafreddo che, la sera dell’omicidio, si trovava a casa con il fratello Maurizio e Demetrio Fanti. Suonano alla porta. Eduardo apre e non ha neanche il tempo di rendersi conto di cosa stia avvenendo che è attinto da tre colpi di pistola al petto e alla gola. Il fratello Maurizio si lancia a inseguire il killer e riconosce Antonino Perla, il figlio di Matteo detto Giorgio, un uomo “rispettato” nella zona. Il giovane sicario riesce a scappare. Quei tre colpi di pistola non sono altro che la risposta a uno “sgarro” consumato poche settimane prima davanti al locale il “Gatto matto” che si trova in una traversa del corso Garibaldi, in pieno centro storico. I due ragazzi avevano avuto una discussione perché Perla aveva urtato il bicchiere della vittima. Dopo gli schiaffi i due rivali si erano resi conto che le rispettive famiglie erano in buoni rapporti. Ecco perché Eduardo Bruciafreddo aveva giustificato il litigio nei giorni successivi con don Giorgio, oggi in carcere perché coinvolto nell’inchiesta “Alta tensione” contro la cosca Borghetto-Zindato. Evidentemente il chiarimento non è stato sufficiente a sedare l’animo di Nino Perla. A spiegare come sono andate le cose il fratello della vittima, Maurizio Bruciafreddo, che ha steso fiumi di verbali alla squadra mobile di Reggio Calabria. Dichiarazioni che si sono rivelate fondamentali per gli uomini di Renato Cortese che hanno fatto luce su un omicidio che, in un primo momento, sembrava essere maturato negli ambienti della droga o scatenato da un movente passionale. Il fratello è morto tra le sue braccia. «Nell’immediatezza ho agito sotto l’effetto della collera e ho meditato vendetta: successivamente a mente lucida e senza influenze esterne, ho stabilito che la cosa migliore era di riferire tutto quanto a mia conoscenza alla polizia perché prendesse i provvedimenti opportuni nei confronti di Nino Perla». Sono le parole riferite al pubblico ministero e al capo della squadra mobile, Renato Cortese, da Maurizio Bruciafreddo. Il testimone chiave ha raccontato nei minimi dettagli cosa è avvenuto a casa della vittima: «La sera dell’omicidio mi trovavo in compagnia di mio fratello Eduardo e precisamente in cucina. Ricordo che stavamo sorseggiando una birra quando, dopo circa 15-30 minuti dalla fine del cartone animato dei “Simpson”, dunque intorno alle 21.15, è suonato il campanello di casa. Eduardo si è affacciato al balcone di casa e, in risposta alla mia richiesta di chi fosse, mi ha fatto segno di lasciar perdere che si sarebbe occupato lui della vicenda. Si è diretto verso la porta d’ingresso dell’appartamento dopo aver chiuso alle sue spalle la porta della cucina e, dopo due-tre secondi, ho sentito il primo sparo e, d’istinto, mi sono alzato verso il corridoio. Nel frattempo venivano sparati altri due colpi. Aprendo la porta della cucina mi sono trovato di fronte Eduardo che si teneva il collo con una mano e si manteneva ancora in piedi. Ho chiesto a mio fratello chi avesse sparato ma non ho ottenuto risposta poiché Eduardo non ce la faceva a parlare. A quel punto ho provveduto ad appoggiare mio fratello contro l’angolo cottura della cucina e sono corso giù per le scale dello stabile. Mentre scendevo di corsa le scale ho sentito il portone chiudersi. Effettivamente, giunto sul pianerottolo, avevo necessità di girare la maniglia e uscire in strada. Istintivamente mi voltavo dapprima verso sinistra senza notare la presenza di alcuno, successivamente verso destra, cioè verso il punto in cui il mio palazzo dà ad angolo con la stradina che scende verso il vicino vallone dove si trova il torrente. Percorsi pochi metri, notavo la presenza di un soggetto di sesso maschile, dell’apparente età di circa 20-25 anni, alto circa 1.70 metri, ben piazzato fisicamente, vestito di nero e con capelli neri a punta, cioè cosparsi di gel. Ho notato che lo stesso camminava con andamento molleggiato, tipico di chi avesse assunto sostanze stupefacenti. Preciso che ho avuto modo di osservare questo giovane da due angolazioni, prima di fianco e poi di spalle e l’ho riconosciuto per Nino Perla, figlio di Giorgio. Intanto mia sorella Lucia, dal balcone di casa sua, iniziava a urlare e attirava la mia attenzione. Istintivamente, consapevole del fatto che quel giovane era armato, mi coprivo il viso e il petto, perdendolo per un attimo di vista. Subito dopo sentivo il rumore di un motorino che si allontanava in direzione del torrente e constatavo che il giovane era sparito dalla mia vista». Un racconto agghiacciante al quale hanno fatto seguito i riscontri della squadra mobile e la ricostruzione della controversia che c’è stata tra il fratello Eduardo e Nino Perla per il quale, oggi, si sono spalancate le porte del carcere di San Pietro. Porte che, con l’accusa di omicidio, rischia adesso di non vedere più aperte. Scrivono infatti i magistrati: «La proporzione assoluta tra la causa e l’effetto, ossia tra un litigio originato da motivi di scarso spessore e l’uccisione di un uomo è talmente eclatante da risultare sintomatica di una personalità dominata da una scala di valori che è propria di un ambiente malavitoso e che contrasta insanabilmente con le regole dello Stato e dell’agire civile. Tali considerazioni servono a sottolineare la particolare riprovevolezza morale e sociale della spinta al delitto».

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