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Lo strano caso Garofalo-Cosco. Per il pm non c`è associazione mafiosa

Carlo Cosco, l`uomo che, secondo l`accusa, ha ucciso la sua ex compagna Lea Garofalo assieme ad alcuni complici sciogliendola in 50 chili di acido, non è mai stato condannato per associazione mafio…

Pubblicato il: 26/03/2012 – 16:02
Lo strano caso Garofalo-Cosco. Per il pm non c`è associazione mafiosa

Carlo Cosco, l`uomo che, secondo l`accusa, ha ucciso la sua ex compagna Lea Garofalo assieme ad alcuni complici sciogliendola in 50 chili di acido, non è mai stato condannato per associazione mafiosa e dunque per quella uccisione non può essere a lui contestata l`aggravante di aver agito per finalità mafiose. È il ragionamento espresso dal pm di Milano, Marcello Tatangelo, all`inizio della sua requisitoria nel processo sulla morte della donna che aveva collaborato con la giustizia. La sorella e la madre di Lea, assistite dall`avvocato Roberto D`Ippolito come parti civili, hanno chiesto «con forza» nei giorni scorsi al pm di contestare l`aggravante mafiosa. «L`aggravante viene contestata quando è provato il fine di agevolare l`associazione mafiosa – ha chiarito il pm oggi in aula – ma deve essere provata quindi anche l`esistenza della “sottostante” associazione. E in questo caso abbiamo una sentenza che ha stabilito che tale associazione non c`era». Il riferimento è a una sentenza degli anni scorsi a carico di Carlo Cosco e del fratello Giuseppe (anche lui a processo per l`omicidio e il sequestro di Lea con altre 4 persone) su un traffico di stupefacenti con base a Milano. Il pm ha spiegato, inoltre, che la donna, scomparsa da Milano e uccisa nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2009, è stata ammazzata per un mix di ragioni «di odio personale e “onore” criminale». Il suo omicidio è stato una «azione programmata con lucida crudeltà» e la donna calabrese – che nel 2002 entrò nel programma di protezione, testimoniando su numerosi fatti di sangue e `ndrangheta, per uscirne nel 2006 – «viveva con una spada di Damocle sulla testa e non era affatto una pazza come alcuni testi hanno voluto farla passare». In particolare, secondo il pm, Carlo Cosco e il fratello avevano «interesse» a ucciderla per quello che «lei sapeva» e aveva «dichiarato» agli inquirenti rispetto all`omicidio di Antonio Comberiati avvenuto nel 1995. Per la conoscenza di questo fatto, e non per altre dichiarazioni rese agli inquirenti, Lea era agli occhi dell`ex compagno una «grave fonte di pericolo».
Ha “denunciato” anche il «grossolano errore» della Commissione ministeriale che, nel2006, le revocò il programma di protezione non ritenendola «attendibile», il pm Tatangelo, nella sua lunga requisitoria nel processo per la morte di Lea Garofalo. La donna entrò nel programma di protezione nell`estate 2002, protezione che le venne revocata nel 2006, poiché le sue dichiarazioni ai magistrati erano rimaste senza riscontri. Poi però, ha spiegato il pm in aula, «giustamente intervenne il Consiglio di Stato che annullò quella decisione», perché la Commissione ministeriale aveva fatto «un grossolano errore procedurale, dato che un collaboratore può essere attendibile anche quando non si trovano riscontri alle sue dichiarazioni». La donna rimase sotto protezione fino all`aprile del 2009, quando poi «decise lei stessa di uscire dal programma per cercare un contatto con il compagno per capire se poteva vivere senza la paura di morire». Scomparve per sempre tra il 24 e il 25 novembre del 2009.
Sta seguendo la requisitoria del magistrato anche la figlia di Lea, Denise Garofalo – 19 anni e parte civile contro il padre – che «per ragioni di tutela», come ha spiegato il presidente della Corte d`Assise Anna Introini, si trova “nascosta” in un corridoio tra l`aula e la camera di consiglio. La requisitoria dovrebbe concludersi domani, con le richieste di condanna.

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