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Una "messa cantata" in ricordo di Giacomo Mancini

Come una liturgia, una “messa cantata”, senza sbavature, perché questo serviva per attuare una rilettura storica, compiere fino in fondo un’opera di revisionismo attorno a una delle figure chiave d…

Pubblicato il: 02/04/2012 – 21:49
Una "messa cantata" in ricordo  di Giacomo Mancini

Come una liturgia, una “messa cantata”, senza sbavature, perché questo serviva per attuare una rilettura storica, compiere fino in fondo un’opera di revisionismo attorno a una delle figure chiave del Meridionalismo, dell’autonomismo politico, del Socialismo di questo Paese perfettamente coniugato con una visione autenticamente laica e garantista. Giacomo Mancini, leader storico del Psi, ministro e alla fine sindaco di Cosenza, celebrato come un`icona sopra le parti, lui che invece sapeva con coraggio dove schierarsi. La destra di governo della Regione ha celebrato il fiero antifascista, che aveva immaginato un Meridione senza latifondo e coltivato il sogno di un`emancipazione dei ceti subalterni e lo ha fatto davanti a una platea che si è voluta definire bipartisan, ma che era in realtà largamente composta dal ceto politico assurto al potere con l’avvento del modello Reggio del presidente Scopelliti. Molti ex missini convertiti alla modernità, la generazione di An traghettata nel Pdl, come l’ex sindaco di Catanzaro, Traversa o il giovane e rampante Fausto Orsomarso, seduto accanto a uno ieratico Marco Pannella. Pochissimi i berlusconiani, rappresentati da Jole Santelli. Mancavano i fratelli Gentile, che Mancini lo avevano conosciuto dentro le sale della storica federazione del Psi di Cosenza e osteggiato in mille battaglie interne al Garofano, ma che negli anni successivi furono pure sospettati di inciuci elettorali col vecchio leone, per aiutare il nipote ancora alle prime esperienze elettorali. Di sinistra ce n’erano pochi. Enza Bruno Bossio, dirigente nazionale del Pd entrava e usciva dal teatro Rendano, seduto più quietamente c’era invece Nicola Adamo, che del Pd è un esiliato. Molta Rai calabrese, tradizionalmente attenta alla narrazione delle imprese del presidente, con Anna Maria Terremoto in prima fila, poco distante da Scopelliti. Qualche antico militante socialista, di quelli che si ricordano ancora la sezione Cappello a viale Trieste, si muoveva sulla poltroncina rossa come se fosse incandescente, probabilmente a causa del disagio di sentire come Mancini veniva raccontato. «Esempio di meridionalismo», lo definisce da lontano Alfano in un messaggio di saluto, mentre il sindaco di Cosenza rievoca come fa spesso il suo personale rapporto di amicizia col leader socialista, che gli donò la sede dell’ordine degli architetti, «suscitando anche le proteste della sinistra extraparlamentare». Ma dal teatro non poteva restare fuori una delle pagine più agitate della storia recente della Calabria. La rivolta di Reggio, di cui Mancini svelò i rischi populisti e le infiltrazioni sospette, affiora nelle parole del presidente Scopelliti che afferma «che quella rivolta, dopo alcuni decenni, rivela il suo valore politico, testimoniato da molti». Non dice chi sono i testimoni, ma passa a definire quelle giornate infuocate come un esempio di battaglia per il sud e il collegamento è fatto: Mancini era un meridionalisita, anche gli uomini della rivolta lo erano. La contrapposizione che “artificiosamente e polemicamente” alcuni ancora vorrebbero tenere viva è invece sepolta. «Mancini era un uomo del Sud ed era ai suoi tempi molto avanti», spiega Scopelliti, rievocando la prima elezione di Mancini a sindaco di Cosenza, «ottenuta con una coalizione composta anche da giovani di destra». Non dice quel che Mimmo Barile, presente in sala, invece sa bene e cioè che i post fascisti furono defenestrati alla prima occasione e liquidati con una alzata di spalle. Ma questa è il momento per spiegare l’inspiegabile, cioè come Giacomo junior sia oggi amico e alleato di Peppe. «Una amicizia che nasce nel 2008 – spiega il presidente –. quando la Commissione antimafia giunse a Reggio e dopo il mio intervento Giacomo ebbe per me belle e lusinghiere parole». La conclusione è scritta: «Siamo due giovani che lavorano per la Calabria, anche se qualche volta scherziamo sul nostro passato». Chissà se ridono pure. Assai istituzionale l’intervento del presidente del consiglio regionale. Talarico ha ricordato il suo passato di giovane democristiano che guardava a Mancini come una figura importante. Le parole di Pietro Mancini invece sono state pronunciate come una lettera immaginaria destinata al padre. Una occasione per attaccare il vecchio Pci, per ricordare gli agguati politici e giudiziari subiti. Renato Meduri, fieramente «fascista tra virgolette», rammenta l’effige di Mancni linciata durante la rivolta di Reggio, ma minimizza, affermando che «non fu il solo grande la cui immagine fu data alle fiamme, nella storia è toccato a molti altri». Tocca poi agli invitati, celebrare il ricordo del leone socialista. Anche ai giornalisti. Il tema affidato a Renato Farina, in arte agente Betulla, è quello di parlare di sospetti e intrighi. Un compito perfetto, che il giornalista svolge con cura attaccando la magistratura. Sul filone del garantismo invece Piero Sansonetti, che confessa di essere “comunista”. Il giornalista rievoca l’impegno a favore degli imputati del processo sette aprile, commette un errore di semantica politica, dicendo che gli arrestati erano di Potere operario, che era morto agli inizi degli anni settanta, mentre l’Autonomia, di cui Piperno, Scalzone, Virno e molti altri erano leader, era una cosa diversa e nuova. Ma a lui preme spiegare la saldatura tra il Pci stalinista e la magistratura, come strumento di una presa di potere. Pannella, alle prese con uno sciopero della fame per l’amnistia, ascolta. A lui piace di più ricordare il Mancini laico e impegnato nelle battaglie civili, con il sostegno all’Aied (associazione italiana educazione demografica, che sin dagli anni sessanta faceva diffusione di metodi anticoncezionali) e la battaglia per il divorzio. Poi le parole di Vulpio e la targa celebrativa che Galati, presidente dell’Associazione calabresi nel mondo, dona a Giacomo Mancini in ricordo del nonno. Mancini è diventato così patrimonio bipartisan. Le sue battaglie più importanti ebbero però nemici precisi.

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