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IL CASO | Pecora è residente nella casa del boss

CINQUEFRONDI Aldo Pecora, fondatore e presidente del movimento nazionale antimafia “Ammazzateci Tutti”, è residente in uno dei 14 appartamenti ricavati in un “fabbricato in corso di costruzione” se…

Pubblicato il: 10/04/2012 – 13:48
IL CASO | Pecora è residente nella casa del boss

CINQUEFRONDI Aldo Pecora, fondatore e presidente del movimento nazionale antimafia “Ammazzateci Tutti”, è residente in uno dei 14 appartamenti ricavati in un “fabbricato in corso di costruzione” sequestrato il 7 febbraio scorso alla cosca Longo di Polistena. Nel palazzo di 5 piani di via Magellano5 a Cinquefrondi, sebbene al Catasto e al Tribunale di Reggio Calabria risulti ancora non ultimato, il leader del sodalizio antindrangheta ha infatti la sua residenza anagrafica dal 14 giugno del 2007. Quasi due anni dopo la formazione della rete giovanile che si batte contro la cultura mafiosa – che nacque sull’onda emotiva sortita dall’omicidio del vicepresidente del consiglio regionale Franco Fortugno –, l’animatore di questo gruppo, noto nel Paese per il suo impegno civile, dichiarava agli uffici comunali di aver trasferito la propria residenza ufficiale nello stabile di cui, oggi come ieri, sono proprietari il boss Vincenzo Longo e i fratelli Giovanni e Francesco. Pecora, che non vive abitualmente in questa che solo sulla carta è una casa “non finita”, è intestatario della residenza cinquefrondese assieme alla madre e al padre. Tuttavia, sono diverse le circostanze che testimoniano il fatto che per la famiglia di Aldo Pecora l’utilizzo dell’immobile sequestrato ai Longo non sia solo formale o per meri fini d’ufficio. Uno dei citofoni del palazzo di via Magellano 5 ha per intestazione i cognomi dei due genitori dell’animatore di “Ammazzateci Tutti”; inoltre, il sito Internet di una piccola agenzia gestita dal padre di Aldo, la “Arti Nuove.It” di cui Giovanni Pecora è amministratore unico, informa che proprio al civico 5 di via Magellano – quindi negli stessi locali dove il leader del monimento e la famiglia hanno eletto la propria residenza – è stata aperta la sede operativa di questa società; infine, diverse domiciliazioni postali escludono possa trattarsi di un indirizzo fittizio o di comodo. L’animatore del movimento antimafia, quindi, si ritrova utente di questa proprietà che, gestita da un clan che notoriamente è egemone nella zona sin dagli anni Ottanta, è considerata dai giudici provento delle attività mafiose di una cosca ultimamente disarticolata con le operazioni Scacco Matto (2011) e Crimine (2010), avvenute dopo il passaggio di residenza fatto da Aldo Pecora: lo stabile sequestrato dalla polizia da quasi 5 anni gli fa da residenza anagrafica e non l’ha cambiata dopo i due blitz antimafia; lo utilizza per abitarci ogni volta che torna nella casa familiare; la sua famiglia ci vive e lo considera uno strumento di lavoro. Le 24 pagine del decreto con cui il giudice Kate Tassone dispone il sequestro del fabbricato dei Longo, e di altri beni che in tutto hanno un valore di oltre 10 milioni di euro, non aiutano a comprendere attraverso quale condizione di fatto Pecora sia residente in via Magellano 5, nel “fabbricato in costruzione” che affaccia sul centralissimo viale Pertini che collega Cinquefrondi a Polistena. L’ampio immobile, che risulta non accatastato secondo i canoni delle civili abitazioni, non è infatti indicato nel documento del Tribunale delle Misure di prevenzione come oggetto di contratti di affitto. Per cui,  resta singolare la circostanza che ha fatto scegliere ad Aldo Pecora di fissare la propria residenza dentro un “palazzo fantasma”, notoriamente di proprietà di una famiglia di mafia. La visura catastale della particella 933, indicata nel decreto di sequestro per il complesso dei 14 appartamenti di via Magellano 5, offre uno spaccato veramente indicativo del complicato lavoro di verifica che adesso attende i tre amministratori giudiziali nominati dal Tribunale. Secondo il Catasto, infatti, il palazzo a cui sono stati apposti i sigilli è diviso in 16 unità immobiliari autonome, di cui 2 ultimate, disposte al piano terra e utilizzate come locali commerciali, mentre le altre 14 risultano «in corso di costruzione» sebbene di fatto siano adibite ad abitazione e uffici, tra cui un rinomato studio commerciale. Insomma, nell’inventario che gli amministratori dovranno stilare e trasmettere al Tribunale, non appena prenderanno la gestione dell’immobile sequestrato, dovrebbero emergere tutta una serie di macroscopiche divergenze tra la situazione di fatto e quella che risulta agli uffici. Tra le incongruenze di uno stabile che risulta «non completamente edificato», quando invece è interamente abitato e riconosciuto come tale dalle società che erogano servizi idrici, elettrici e telefonici, ci sarà certamente da decifrare anche quella che riguarda l’appartamento in cui Pecora ha la residenza che, per il Catasto, è semplicemente una «una unità immobiliare ancora in costruzione» come le altre. Insomma, un piccolo dedalo giuridico da “attraversare” fino in fondo, visto che ai curatori che rimarranno in carica fino alla decisione definitiva, prevista per l’ottobre prossimo, toccherà adesso ricostruire i vari titoli di locazione, ove ci siano e siano stati formalizzati in passato, e far pagare l’affitto agli inquilini decidendo se adeguare i canoni oppure lasciarli ai livelli di prima. La parte del decreto di sequestro che invece non avrà bisogno di altre analisi degli amministratori è quella che descrive l’emblematica e oscura storia dell’immobile-residenza di Aldo Pecora, e di come, secondo il Tribunale, esso vada espropriato al clan Longo perché frutto di attività illecite di una consorteria mafiosa tra le più ricche, essendo specializzata nell’edilizia, nell’infiltrazione negli appalti pubblici, uno su tutti quello per la costruzione del palazzo di giustizia di Reggio Calabria. Questa sezione del documento, infatti, è molto chiara e piena di spunti inequivocabili. L’acquisto del terreno su cui successivamente venne edificato il palazzo di via Magellano 5, secondo la ricostruzione fatta nell’atto dal giudice Tassone, era costato 12 milioni di lire, nel 1978, al padre di Vincenzo Longo, Rocco. Quest’ultimo, secondo quanto scrive il giudice, «era a sua volta portatore di un’autonoma pericolosità sociale (reggente della cosca, fino al 1987, ndr)» e, inoltre, «aveva percepito in quegli anni un reddito medio di 135mila lire da disoccupazione agricola». «Orbene – conclude sul punto il Tribunale – ponendo attenzione alle somme di denaro spese per le varie oblazioni e a quelle prudenzialmente stimate come necessarie alla ultimazione degli appartamenti (di via Magellano 5, ndr) e raffrontate tali voci con i redditi ufficiali (dell’odierna famiglia Longo, ndr) ricorre una sproporzione che potrebbe far ritenere che tali spese sono state effettuate grazie ai proventi illeciti derivante dall’attività delittuosa». «Ponendo attenzione», afferma il giudice, ma evidentemente l’attenzione non è mai troppa. Tutto questo, in attesa della sentenza che potrebbe portare ad una confisca definitiva di questo e degli altri beni sequestrati, con la conseguenza che a quel punto il “palazzo fantasma che appartiene alla ’ndrangheta” dovrà essere sgomberato e assegnato, da parte del Comune, a qualche associazione di volontariato o antimafia. Chissà se “Ammazzateci Tutti” farà richiesta.

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