No, non esistono isole felici. Non esistono a livello territoriale; lo abbiamo visto e lo vediamo continuamente: anche le regioni più ricche e prospere del Paese, le più colte ed evolute, soffrono della presenza delle organizzazioni mafiose come in Calabria, Sicilia e Campania. Non esistono a livello istituzionale: la magistratura non è esente da fenomeni di degrado, corruzione, contiguità con le mafie e gli arresti di due magistrati reggini ne rappresentano la drammatica evidenza. Non esistono neppure a livello politico: lo spettacolo che offre la Lega, che si disvela ai nostri occhi, giorno dopo giorno, tragico e farsesco ad un tempo, rivela come anche i propositi di radicale rinnovamento morale e politico che questo partito proclamava a voce alta di voler realizzare, si sono infranti miseramente, mettendo in forse la possibilità stessa che tali propositi possano essere realizzati da questo come da ogni altro movimento politico che operi nel nostro Paese. L’aspetto più sconcertante e nel tempo stesso più inquietante che offre la stupefacente novità giudiziaria di questi giorni è l’omologazione della Lega al clima di basso impero dominante. Su di essa sono state fatte analisi e valutazioni da parte dei più raffinati ed esperti politologi italiani, senza che nessuno, sino ad oggi, ma adesso è troppo facile, avesse mai provato a capire che cosa si nascondesse dietro il successo di questo movimento, la cui classe dirigente appariva (ed era) chiaramente inadeguata al compito che si era prefissata. Quello che è emerso sinora, sembra di capire, non è tutto; c’è molto di più. C’è il rapporto, ancora oscuro e sotterraneo, ma sul quale si spera che le indagini facciano piena luce, con esponenti della ‘ndrangheta calabrese, finalizzati al riciclaggio di denaro di provenienza illecita nel più ampio calderone dei fondi provenienti dai rimborsi elettorali, gestiti con disinvoltura dal Belsito di turno.
Chi scrive, in una intervista apparsa sul Corriere della Sera il 25 giugno del 1993, al giornalista Paolo Graldi, esprimeva le sue preoccupazioni sui propositi secessionisti, per il consenso che avrebbero potuto suscitare nelle mafie che avevano tutto l’interesse a profittare della spaccatura del Paese, per mettere definitivamente sotto controllo le regioni meridionali. Ne riporto uno stralcio, unicamente per gli increduli: «Faccio un ragionamento. Il Paese vive un momento di transizione molto delicato. Siamo anche in presenza di spinte separatiste. Vi sono forze politiche che pensano a progetti del genere. Bene, io sostengo che anche la mafia, nel passato in varie forme, ma soprattutto oggi, coltiva aspirazioni separatiste, insomma vedrebbe di buon occhio uno Stato federalista. E, in effetti, da una composizione del genere potrebbe ottenere diversi vantaggi». Sia franco: lei pensa alla Lega? «Non considero una sciocchezza sostenere che i due mondi, lontanissimi, di Lega e mafia, potrebbero vedere, ciascuno per proprio conto, un`utilità nel realizzarsi di un progetto separatista». Segnalavo ancora come in quel periodo si registravano anomale concentrazioni di depositi di armi, anche pesanti, in rifugi ben protetti in Aspromonte, il cui possesso non appariva giustificato per l’impiego nelle consuete guerre interne, peraltro all’epoca ormai risolte. Nell’autunno di quell’anno, nel corso dell’audizione in commissione parlamentare Antimafia, il collaboratore di giustizia Leonardo Messina dichiarò che la massoneria e la mafia erano favorevoli alla separazione perché avrebbe consentito alla mafia di «farsi Stato». Aggiungeva ancora il Messina: «Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria» e il relatore chiede: «Ed è nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo?». «Sì, desidero precisare che tutto quello che dico non è fonte di interpretazione o di deduzioni personali, ma è quello che so». Il relatore: «E queste cose le sa per conoscenza diretta?». «Sì, le so per conoscenza diretta».
Ora sappiamo che l’interesse della ‘ndrangheta per la nuova formazione non fu soltanto politico. Ben presto il progetto separatista fu accantonato (anche se mai abbandonato) perché nuovi scenari politici si aprirono improvvisamente nel Paese, e dunque l’interesse si trasferì sul piano economico e imprenditoriale. Furono anni, quelli, nei quali le imprese della ‘ndrangheta rafforzarono e stabilizzarono la loro presenza nel Nord e posero le premesse per quello che da qualche anno a questa parte i magistrati milanesi hanno individuato come il “sistema ‘ndrangheta” nel settore dell’edilizia. L’occupazione non poteva non passare da un dialogo con settori dell’apparato amministrativo e politico di quelle regioni, in particolare della Lombardia e ciò fu quello che avvenne. A spicchi, e per adesso in maniera saltuaria, ne conosciamo tappe, protagonisti, vicende, ma quando sarà possibile comporre uno scenario integrale ne uscirà un quadro allucinante della mafiosizzazione progressiva della regione più ricca del Paese. L’ultima tappa, almeno per il momento, sembra essere quella dell’utilizzazione dei canali di occultamento dei rimborsi (si fa per dire) pubblici ai partiti per operazioni di riciclaggio di proventi mafiosi. Sarebbe il segno di una penetrazione nei partiti attraverso l’erogazione di risorse finanziarie di grande rilievo, per procedere poi ad un progressivo inserimento nelle scelte di tipo più schiettamente politico. L’offensiva per la difesa della legalità che ha caratterizzato l’operato della Lega appariva da tempo parziale e poco attenta sul territorio a fenomeni criminali ben più gravi di quelli rappresentati dagli immigrati irregolari. Altrettanto strana appariva un’offensiva per la legalità condotta in polemica con la magistratura e con le regole della Costituzione in materia di indipendenza ed autonomia di giudici e pubblici ministeri. Lentamente riusciremo a trovare spiegazioni valide su tutto. Per intanto è il caso di riprendere la discussione sui motivi che hanno indotto mondo politico e opinione pubblica della Lombardia a sottovalutare, minimizzare, banalizzare, il problema della presenza della ‘ndrangheta su quel territorio. Sinora abbiamo tutti pensato che si trattasse di leggerezza, incomprensione, superficialità. Alla luce di quello che le indagini, e non solo quelle che riguardano la Lega, stanno evidenziando da almeno un anno a questa parte, è legittimo cambiare prospettiva. Le omissioni, i ritardi, le sottovalutazioni, potrebbero dipendere dalla rete di intrecci di interessi economici, di relazioni politiche, di collegamenti imprenditoriali, di scambi di utilità. Il triangolo Calabria-Liguria-Lombardia è anche un triangolo politico, nel quale la ‘ndrangheta ha saputo inserirsi fornendo sostegno elettorale, in cambio di accesso ad affari, appalti, investimenti. E non è un caso che uno dei personaggi centrali dell’indagine della Dda reggina sia proprio un personaggio sul quale in passato quell’ufficio aveva indagato a lungo. Si esce dal giro dei processi riguardanti vecchi capobastone privi di potere reale e si accede ai livelli alti nei quali opera il gotha della ‘ndrangheta reggina, riprendendo a tale fine, indagini condotte in passato che si rivelano una miniera di informazioni, preziose anche a distanza di anni. Il riferimento specifico è all’operazione Cleam Together, della Dda di Reggio Calabria, iniziata nel 1999, dall’allora sostituto Alberto Cisterna, su una informativa di reato del Goa della guardia di finanza di Catanzaro. Si tratta della medesima operazione che ho ricordato nell’articolo sulla ‘ndrangheta in Costa azzurra, riguardante noti esponenti della cosca De Stefano di Reggio, Fazzalari Salvatore, arrestato in Francia, Fazzari Vincenzo e molti altri ancora, oltre il fior fiore dei faccendieri internazionali esperti in materia di riciclaggio, truffe e traffici illeciti di ogni genere (Amandini, Pintus, Landonio, per citarne soltanto alcuni). Al termine delle indagini, il numero degli indagat
i era salito a sessantadue e l’imputazione era quella di associazione di tipo mafioso, dedita a: truffe in danno di istituti bancari italiani ed esteri, attraverso l’introduzione e l’impiego di falsi titoli finanziari utilizzati per ottenere linee di credito dal sistema bancario; favoreggiamento della latitanza di soggetti colpiti da ordinanza di custodia cautelare; riciclaggio e reimpiego di denaro e utilità costituenti il prezzo, prodotto, profitto di fatti illeciti commessi da svariate associazioni delinquenziali (anche di tipo mafioso); predisposizione di garanzie per acquistare tabacchi lavorati esteri da introdurre illegalmente nel territorio dello Stato. Tra gli indagati di allora figurava Romolo Girardelli, che nelle recenti indagini è indicato come il tramite tra il tesoriere della Lega Belsito e gli stessi esponenti della ‘ndrangheta reggina indagati nel 1999. E già nella prima indagine emergevano i collegamenti con istituti bancari di Cipro, proprio da parte del Girardelli. Una continuità che non stupisce, dal momento che le cosche calabresi che hanno sempre avuto un atteggiamento dialogante con i settori della politica, degli affari, della massoneria e di altri poteri occulti, sono quelle operanti in città e nella piana di Gioia Tauro, vale a dire nei luoghi nei quali si concentra il potere politico ed economico della regione. L’argomento dovrà necessariamente essere rivisitato allorquando saranno noti i successivi sviluppi delle tre operazioni, delle quali il filone seguito dalla Dda reggina sembra, al momento, il più interessante proprio per i risvolti dei legami mafia-politica, che emergono sullo sfondo.
Alcune considerazioni finali: Il popolo della Lega e i suoi esponenti, invece di arretrare dall’abisso di illegalità che si è spalancato davanti ai loro occhi, continuano a difendere i propri leader e a polemizzare con la giustizia a orologeria e altre simili amenità. Francamente non si conosce quale sia la dose massima di illegalità, clientelismo, appropriazioni indebite, necessaria per provocare un moto generale di indignazione e di protesta e neppure la presenza dell’ombra della ‘ndrangheta appare sufficiente per uscire dal sogno, ma certo è che anche per questa via passa la legittimazione popolare dell’illegalità a spese dell’interesse pubblico collettivo. La seconda riflessione attiene alla lentezza della risposta del mondo politico. I casi Lusi e Belsito avrebbero dovuto provocare un intervento legislativo immediato che ponesse fine, da subito, ai guasti di una legge contraria alla volontà popolare e chiaramente criminogena. Evidentemente anche per i partiti la misura non è ancora colma.
* Magistrato
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