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OPERAZIONE MEDUSA | Le donne e le ambasciate in carcere

LAMEZIA TERME Sono a conoscenza degli affari di famiglia, ma soprattutto portano le ambasciate ai parenti in carcere. Emerge in modo dominante il ruolo delle donne all`interno della cosca Giampà, d…

Pubblicato il: 28/06/2012 – 19:26
OPERAZIONE MEDUSA | Le donne e le ambasciate in carcere

LAMEZIA TERME Sono a conoscenza degli affari di famiglia, ma soprattutto portano le ambasciate ai parenti in carcere. Emerge in modo dominante il ruolo delle donne all`interno della cosca Giampà, decapitata oggi dall`operazione “Medusa”. In particolare, Vanessa Giampà, figlia di Francesco “U’ Prufessura” e arrestata questa mattina, secondo gli inquirenti, fa da trait d’union tra il vertice della cosca (cioè il padre), il fratello e lo zio, questi ultimi in piena rotta di collisione per la spaccatura interna al clan. I collaboratori di giustizia hanno riferito che il ruolo di Vanessa, assieme a quello delle altre donne di `ndrangheta, «non consiste solo nel godere di indebite percezioni periodiche di beni e di danaro, cedute a lei e ai parenti (madre, sorella, fratello ecc.) dai vari imprenditori e commercianti lametini, assoggettati alla forza intimidatrice che deriva dall’associazione criminale a cui la stessa appartiene».
In realtà, Vanessa Giampà, la sorella Rosa e la madre Pasqualina Bonaddio, svolgono il ruolo di «vettore di notizie d’interesse per la propria cosca, dall’ambiente esterno ai familiari detenuti». A testimoniarlo le conversazioni captate nei penitenziari di Bologna e Catanzaro in cui sono rinchiusi rispettivamente Francesco Giampà e il figlio Giuseppe. A tale proposito, è emblematico un colloquio intercettato nell`agosto dello scorso anno tra Giuseppe, la moglie Teresa, il cognato Mario e la sorella Vanessa. I familiari informano Giuseppe di tutto ciò che accade all’esterno dell`istituto penitenziario. «È Vanessa Giampà – scrive il gip – a chiedere al fratello l’autorizzazione per fare incontrare Ottorino Ranieri e una persona non identificata di Sambiase, con lo zio Vincenzo Bonaddio (alias “ca-cà”). Che si tratti di affare della cosca, si desume dalla necessità che l’incontro coinvolga Bonaddio Michele e che, attesa la spaccatura interna evidentemente nota a Vanessa, quest’ultima chieda il placet del fratello. Giuseppe Giampà dà il consenso alla sorella, giustificandolo con il fatto che lo zio Vincenzo era l’unico a non essere detenuto». È sempre Vanessa a informare Giuseppe Giampà che lo zio Vincenzo Bonaddio aveva ricevuto disposizioni da parte del loro genitore, “U’ Prufessura”, detenuto a Bologna. Ed è ancora Vanessa a riferire al fratello le «notizie da lei apprese sul pentimento di Battista Cosentino, il quale a dire della ragazza avrebbe parlato solo di estorsioni, mentre Angelo Torcasio aveva già parlato di lui, Giuseppe, (indicandolo anche con la mano), del padre (Francesco Giampà), di Pasquale e di quelli della montagna».
Vanessa – secondo quanto riportato nell`ordinanza – riusciva a dialogare con il padre anche con il linguaggio gestuale o solo con il labiale. «I cenni al padre con le mani e con le labbra – afferma il giudice – rivelano lo scopo di comunicargli qualcosa, che evidentemente non voleva che terzi (cioè i previsti servizi intercettivi) ascoltassero. Dal movimento delle sue labbra si “leggono” alcune delle frasi dette dalla stessa e indirizzate al proprio padre, il quale viene visto, a sua volta, parlare in labiale e fare cenni con la testa a confermare di aver capito quanto detto dalla figlia. Si comprende che l’argomento della conversazione è qualcosa che riguarda Giuseppe Giampà e che viene riportato al padre il messaggio “di stare tranquillo” ». Anche Rosa Giampà, sorella di Vanessa, è – secondo gli inquirenti – una leader: «Scuote il fratello, rinserra le fila dell’associazione, ammonisce Giuseppe Giampà sul poco valore degli uomini a cui egli aveva dato fiducia e che avevano iniziato la collaborazione con la giustizia, stabilisce che occorre dare esecuzione agli ordini del padre giunti dal carcere di Bologna, attraverso la madre e che in un momento in cui non può essere chiarito tutto a causa della detenzione in carcere, occorre soprassedere e andare avanti, prima di “distruggere tutto”. Si tratta di un intervento in chiave salvifica per l’associazione». Le donne mettono la pace e gestiscono la “guerra”.

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