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"Meta", la storia di Reggio secondo Fiume

REGGIO CALABRIA «Le società miste del Comune di Reggio? Anche in quegli affari bisognava dare conto a Peppe De Stefano». Parola di Nino Fiume, l’ex killer della potente famiglia di Archi che oggi h…

Pubblicato il: 13/07/2012 – 20:02
"Meta", la storia di Reggio secondo Fiume

REGGIO CALABRIA «Le società miste del Comune di Reggio? Anche in quegli affari bisognava dare conto a Peppe De Stefano». Parola di Nino Fiume, l’ex killer della potente famiglia di Archi che oggi ha continuato la sua testimonianza nell’ambito di “Meta”, il maxiprocesso nato dall’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo. Il collaboratore di giustizia, nel corso dell’udienza in aula bunker, ha riferito di due incontri («a Messina e nella discoteca “Oasi” di Reggio»), tra l’erede di don Paolino e Pino Rechichi (ex direttore operativo della Multiservizi, arrestato nell’ambito dell’operazione “Archi-Astrea”), per discutere delle società partecipate del Comune. «Ho assistito personalmente a quei discorsi – ha detto Fiume -, anche se non ho mai saputo come si siano sviluppate quelle vicende». Una dichiarazione che confermerebbe l’impianto accusatorio della Dda di Reggio, secondo cui società come la Multiservizi sarebbero state controllate dalle potenti famiglie di ‘ndrangheta di Archi.

PEPPE DE STEFANO, Il “CRIMINE”
Fiume anche oggi si è soffermato sulla figura di Peppe De Stefano, il boss insignito in cella della carica di “Crimine”, facendo un parallelismo con il padre Paolo, ucciso nel 1986 in un agguato che di lì a poco avrebbe scatenato una faida che tenne in scacco per cinque anni la città di Reggio. «Aveva lo stesso ruolo di don Paolo – ha spiegato Fiume -, con la differenza che quest’ultimo era il capo indiscusso, mentre Peppe era il “vertice” di una cupola nella quale trovavano posto Pasquale Libri, Pasquale e Giovanni Tegano e Pasquale Condello».

LA MANO NERA DI PEPPE
L’ex luogotenente di Carmine De Stefano ha ripercorso anche la storia della “mano nera”, la strategia che Peppe De Stefano e il boss di San Giovannello, Franco Audino, avrebbero messo in atto per cercare di accrescere il loro potere, in violazione degli accordi raggiunti da tutte le famiglie nel ’91. «Fu alla base della rottura tra Orazio De Stefano e Peppe – osserva Fiume – Arrivavano lettere anonime come se ci fosse un’altra organizzazione a cui dover dare conto. Orazio diceva che Peppe aveva questo vizio di mandare lettere. Si era creata una situazione per impaurire, per tenere sotto stress» gli imprenditori e commercianti della zona.

IL RAPPORTO CON L’EX COGNATO
Il rapporto di Fiume con il cognato Peppe, l’uomo insignito del “Crimine” in carcere dopo l’accordo tra le grandi famiglie, era sempre stato ottimo. Ma a un certo punto il collaboratore inizia a temere per la sua vita. «Una volta me l’ha detto in faccia che mi ammazza», ha ricordato da dietro il paravento. Ma come ha fatto Fiume a sapere della “promozione” di Peppe De Stefano a capo indiscusso della ‘ndrangheta reggina? «Me l’aveva detto Carmine, che si era incontrato anche con Pasquale Condello. Poi era stato lo stesso Peppe a confermarmelo».

IL LOCALE DI ARCHI
«Dopo la morte di Paolo De Stefano il locale di Archi è rimasto aperto». La morte del superboss aveva insomma creato un vuoto, in quella che è sempre stata la culla della criminalità organizzata in riva allo stretto. Un vuoto che il figlio Carmine cercò in un primo momento di colmare, stoppato subito però dall’ascesa perentoria del fratello Peppe, che per l’impresa fu aiutato – secondo Fiume – «dall’avallo di Pasquale Condello». «Archi – ha detto ancora – è sempre stato il fulcro, il centro di determinate situazioni, fin dai tempi di don Paolo».  

NUOVE INDAGINI SUL GIUDICE SCOPELLITI
Nel corso dell’udienza, il pm Lombardo ha rivelato l’esistenza di nuove indagini relative all’omicidio del giudice Scopelliti. Durante il controesame, Fiume si è rifiutato di rispondere a una domanda dell’avvocato Marcello Manna, relativa al contesto in cui si era consumata l’eliminazione del magistrato, di cui il collaboratore di giustizia aveva in parte riferito durante l’udienza di mercoledì scorso. In quella occasione, l’ex killer dei De Stefano aveva confermato che ad assassinare il giudice erano stati «due calabresi», su input di Cosa nostra siciliana. Scopelliti, infatti, rappresentava la pubblica accusa in Cassazione nel maxiprocesso alla mafia istruito da Giovanni Falcone. Fiume non ha fatto nomi, suscitando le proteste dell’avvocato Manna. È stato a questo punto che il pm Lombardo ha rivelato: «Non può fare i nomi in questa sede, perché sulla vicenda sono in corso nuove indagini».

NINO LO GIUDICE
Fiume è uno che conosce la ‘ndrangheta e i suoi meccanismi. Per anni è stato il braccio destro di Peppe e Carmine De Stefano, che considerava quasi dei fratelli, anche per via del suo fidanzamento con la sorella dei due, Giorgia. L’uomo che oggi accusa i rampolli del clan, un tempo era il destinatario di molti segreti. Sa molte cose, Fiume. Anche su Nino Lo Giudice, il boss dell’omonimo clan ora collaboratore di giustizia. «Si parlava di lui come di un grande sparatore – ha raccontato Fiume -, criticato perché spesso faceva anche vittime innocenti. La sua famiglia esisteva già negli anni 70, ed era legata a Ciccio Canale. Dopo la prima guerra, rimasero nella zona di Santa Caterina. Con la seconda faida, all’inizio sparavano per noi, poi per i Condello, perché pensavano che a uccidere uno dei loro figli fossimo stati noi. Comunque questa famiglia non fu mai digerita dai De Stefano, erano più vicini ai Tegano. Dopo il passaggio con i condelliani diventarono nostri avversari». «Loro – ha continuato Fiume – erano nel commercio della frutta e gestivano attività nel campo dei surgelati. E poi si dedicavano all’usura. Mio zio fu istigato al suicidio da loro». Quanto alle trattative per la spartizione del territorio, subito dopo la pax mafiosa, i Lo Giudice non ebbero voce in capitolo, «ad assumersi la responsabilità su di loro fu Pasquale Condello».

L’OMICIDIO DI ANGELA COSTANTINO
Dal racconto del collaboratore di giustizia emergono particolari anche sulla morte di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice. «Si era invaghita di Peppe De Stefano. La consideravano una psicolabile. A un certo punto pensammo fosse lei l’autrice dei danneggiamenti alla tomba di Paolo De Stefano. La fecero sparire i Lo Giudice. Ne parlai anche con Carmine, che me lo confermò».

IL PENTITO MOIO
Il sostututo procuratore Lombardo ha anche chiesto a Fiume quale fosse il ruolo di Roberto Moio, oggi collaboratore di giustizia. «Era un killer imparentato con i Tegano, a cui era molto legato – ha detto -. Lo conosco da quando eravamo ragazzini, come tanti altri si avvicinò ad Alfonso Molinetti e ai Tegano. Nel periodo della guerra aveva rapporti anche con i De Stefano. Ricordo che a un certo punto si sentì trascurato: gli avevano promesso dei soldi derivanti dal traffico di orologi in Svizzera. Lui lavorava in una ditta addetta alla pulizia dei treni. Ma a un certo punto rischiò di essere eliminato da noi». Poi Fiume torna sui ragazzi della «Reggio bene»: «Se Carmine chiedeva loro una cortesia, ad esempio come trasportare una borsa, loro non chiedevano nulla, anche se dentro magari c’era un mitra».

IL RUOLO DI UGO MARINO
Lombardo vuole poi approfondire il ruolo di Ugo Marino, E Fiume ricorda come fosse «inserito bene» negli ambienti criminali reggini, anche per via di un rapporto «ottimo» con i De Stefano: «È sempre stato disponibile. Era anche amico di Paolo Martino e negli ultimi tempi con Gianni De Stefano».

GLI ZITO-BERTUCA
L’attenzione del pm si sposta poi sul sodalizio dei Zito-Bertuca di Villa San Giovanni. L’ex killer degli “arcoti” ricorda come la famiglia Zito fosse «una alleata storica dei De Stefano, una cosa sola con noi. Enzo Zito e Pasquale Bertuca passarono la latitanza insieme, dietro il Ritrovo Morabito (famoso locale reggino, ndr)». Fiume riporta un episodio che dimostra come nella ‘ndrangheta, anche in
presenza di forti legami associativi, i sospetti siano sempre presenti. «Una volta Carmine mi disse di portare una microspia a Enzo: voleva sapere cosa faceva Pasquale in sua assenza», ricorda il pentito. Che torna sulla spartizione del territorio operata all’indomani della guerra di mafia per specificare come a Villa, malgrado la presenza dei Zito-Bertuca, ci fosse sempre «la supervisione delle famiglie più importanti». È il caso del boss di Pietrastorta, Santo Crucitti, «incaricato di lavori specifici relativi al Ponte». Ma, Fiume non sa proprio dire chi sia Antonino Imerti, il capocosca alla sbarra cugino del temibile “Nano feroce”, uno dei principali artefici della seconda faida di ‘ndrangheta a cavallo tra gli anni 80 e 90. «Io conoscevo solo il Nano, che ha trascorso la sua latitanza ad Archi – ha spiegato -. Questa famiglia è sempre stata associata ai De Stefano, alleanza che si spaccò in occasione della guerra».
Lombardo a questo punto inizia a elencare i nomi dei principali protagonisti dell’inchiesta “Meta”. A partire da Giovanni Rugolino: «Gestiva la latitanza di Carmine De Stefano ed era amico di Giuseppe . Lo conosco fin da piccolo, aveva autonomia di movimento su Gallico e Catona». «E Antonino Crisalli?», chiede il magistrato della Dda. «Lo frequentavo in discoteca al Limoneto, una persona sempre disponibile».

IN DISCOTECA COL FUTURO GOVERNATORE
È a questo punto che Fiume, in un inciso del suo discorso, fa riferimento al governatore della Calabria: «I primi tempi al Limoneto ci andavo quando lo frequentavo con Peppe Scopelliti».

LE FORTUNE DEL RE DEI VIDEOPOKER
Il collaboratore ha anche ripercorso la storia di Gioacchino Campolo, il re dei videopoker, recentemente condannato in appello per estorsione a 16 anni di carcere. «Era uno che inizialmente si occupava di condizionatori – spiega Fiume -, poi investì nelle macchinette. Non era un “uomo d’onore”, ma di “rispetto”. Nella prima guerra gli era stato ucciso un fratello. Lui dava conto a Ciccio Canale. Morto lui, si mise a disposizione dei De Stefano. Non ho mai saputo che avesse macchinette truccate, ma sapevo che molti si chiedevano da dove arrivassero tutti i suoi beni. Aveva comprato un po’ di tutto, in Francia e a Roma, con l’avvocato Giorgio De Stefano».

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