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Fiume: «I politici bussavano alla porta del clan»

«Fiume è un pupo ammaestrato. Invoco la legittima suspicione, perché questo non è un processo che si può svolgere a Reggio». Ha esordito in questo modo Peppe De Stefano, il rampollo del potente cas…

Pubblicato il: 20/07/2012 – 20:14
Fiume: «I politici bussavano alla porta del clan»

«Fiume è un pupo ammaestrato. Invoco la legittima suspicione, perché questo non è un processo che si può svolgere a Reggio». Ha esordito in questo modo Peppe De Stefano, il rampollo del potente casato della ‘ndrangheta reggina, durante la lettura del suo memoriale.
Per il figlio di don Paolino è stata una giornata dura, contrassegnata dalla deposizione del suo ex cognato e “collaboratore” Nino Fiume, il pentito giunto alla sua terza udienza nell’ambito del processo “Meta”, che si sta celebrando davanti al Tribunale presieduto da Silvana Grasso. Per Peppe De Stefano, il boss che – come ha riferito Fiume – era stato investito in carcere della carica di Crimine, non esistono più le condizioni per svolgere il processo ai suoi danni in riva allo Stretto. «Non sussistono più i canoni per un giudizio equo – ha detto, visibilmente contrariato -, ritengo di essere stato vittima di pressioni premeditate da parte del pm Lombardo e del colonnello Giardina, al fine di non farmi affrontare con serenità il dibattimento».
Ma gli strali più polemici sono riservati proprio al collaboratore di giustizia, che pochi minuti prima aveva terminato il suo racconto sugli assetti interni alla malavita organizzata reggina, all’interno della quale un ruolo di primo piano è stato svolto dalla famiglia De Stefano. Da don Paolo prima e da suo figlio Peppe poi. «Fiume è un buffone e un falso – ringhia il boss dalla stanza del carcere di Tolmezzo adibita al collegamento audiovideo -. Parla di politica, appalti, massoneria, ma è uno che un tempo non sapeva neanche chi fosse Palmiro Togliatti».
Ma De Stefano ha pronto un colpo di scena, quando svela che il vero padre di Fiume sarebbe «Giacomo Lauro», anche lui collaboratore di giustizia: «Le parole che dice Fiume, anche quelle relative ai killer del giudice Scopelliti, sono quelle che gli ha riferito suo padre». «Fiume – ha detto De Stefano, con un tono di voce molto più alto – è un pupo ammaestrato, e io so pure da chi».
Il superboss della ‘ndrina che ha imperato a Reggio per almeno quarant’anni è convinto che contro di lui non ci siano altro che le parole, le «chiacchiere» dei pentiti, anche relativamente ai processi precedenti per i quali è già stato giudicato. «Oggi – ha continuato – apprendo che questi collaboratori continuano a essere nella stessa sezione di carcere a discutere. Fiume è insieme ad Antonio Schettini, Giacomo Lauro, Foschi e tanti altri che accusano me». Poi una facile provocazione: «Fiume lo dovevano mettere con Michele Misseri, così avrebbe accusato zia Cosima e Sabrina, e non con tutti i pentiti che mi accusano».
Ma il “Crimine”, così come è stato definito dal suo ex cognato, ha molte altre cose da eccepire, soprattutto in relazione alle modalità del processo, nato dall’istruttoria coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo. «Non si può vietare ai miei legali di controesaminare il colonnello Giardina sulle sue gravissime dichiarazioni riguardanti l’arresto di Orazio De Stefano e sul sequestro di due neonati». «Da folle innamorato della giustizia e della libertà – ha aggiunto con tono deciso – sfido la Procura e le caserme di tutta Italia a dimostrare il mio coinvolgimento nell’arresto di mio zio e i miei rapporti con istituzioni e magistrati».
Infine De Stefano stigmatizza la reticenza del pentito Fiume nel momento in cui è stato sollecitato dagli avvocati difensori, ma stoppato da Lombardo («non faccia i nomi in questa sede»), a fare i nomi dei soggetti politici che avrebbero intrattenuto rapporti con il clan degli “arcoti”. «Deve fare i nomi – ha detto il boss rivolto al pubblico ministero e al presidente del Tribunale -, sui killer di Scopelliti e sui politici. Io ho bisogno di essere tutelato da un processo giusto».
Al termine della lettura del memoriale, è intervenuto il difensore di Peppe De Stefano, Marcello Manna, che ha invitato il Tribunale a considerare inutilizzabili tutti i verbali del pentito Fiume che non sono stati legittimamente depositati.

LE PAROLE DI FIUME E I RAPPORTI CON LA POLITICA
Prima dell’intervento di Peppe De Stefano, era stato proprio Fiume a occupare la scena. E le sorprese, anche in questo caso, non sono mancate. Soprattutto quando, incalzato dalle domande del sostituto Lombardo, il collaboratore di giustizia ha parlato dei contatti tra il clan e la politica. Anche in questo caso, niente nomi specifici, ma una dichiarazione netta: «Ho personalmente organizzato gli incontri tra Peppe De Stefano e vari soggetti politici, ma non ho mai assistito personalmente».
Più volte nel corso del dibattito il pentito ha fatto riferimento all’interesse dei suoi ex cognati, Carmine e Peppe De Stefano, alle vicende politiche reggine. In particolare, Fiume ha ricordato le parole del cognato che oggi lo accusa di essere un «pupo ammaestrato». «Lui – è il suo ricordo – faceva finta di non interessarsi, aveva paura di commettere gli errori di Giorgio De Stefano con la Dc e di bruciarsi. Diceva sempre: “mettiamo in casa i fac-simile di un candidato, così se li scoprono non sanno che invece ne appoggiamo un altro”». Ma Fiume tiene a sottolineare un altro aspetto non meno importante, relativo alle dinamiche che si registravano continuamente in prossimità delle scadenze elettorali».
Contrariamente a quanto si possa pensare – ha spiegato – «in molti casi erano i politici a bussare alla porta degli ‘ndranghetisti, e non viceversa». Quello dei clan non era un appoggio ideologico, ma alquanto “interessato”. Fiume infatti ha riferito di un episodio nel quale, «malgrado Pasquale Condello (detto il “Supremo”, ndr) avesse deciso di votare a destra, nei 10 giorni precedenti al voto mi mandarono a dire se c’era la possibilità di appoggiare uno di sinistra». Un impegno bipartisan, quello della cosche reggine, guidato soprattutto dalla possibilità concreta di fare affari o aggiudicarsi nuovi appalti. Fiume, però, non ha fatto riferimento a nessuna elezione in particolare, la sua è stata una descrizione – a volte molto confusa – del modus operandi dei clan in occasione degli appuntamenti elettorali in città.

LA LATITANZA DI CARMINE DE STEFANO
Fiume, durante il controesame curato dagli avvocati difensori, ha risposto a molte domande inerenti le sue dichiarazioni precedenti, rese nel corso delle prime due udienze. Tra queste, anche quella relativa alla latitanza di Carmine De Stefano. «Quando venne arrestato ad Arghillà – ha spiegato – io e Peppe pensammo subito a un tradimento». Un sospetto inizialmente caduto su Gaetano Campolo, l’uomo che – stando alle dichiarazioni del collaboratore – avrebbe gestito la latitanza dello stesso boss, per il quale avrebbe anche pagato l’affitto dell’appartamento in cui si era rifugiato.

LA ROTTURA CON I DE STEFANO
A un certo punto, però, il rapporto tra i fratelli De Stefano e il killer Fiume si rompe. Il futuro collaboratore di giustizia non condivide la loro strategia sulle estorsioni, preme affinché i suoi ex cognati escano “dal giro”. Invano. Fiume diventa un personaggio scomodo, così decide di costituirsi e svelare tutti i retroscena di una delle famiglia più potenti di tutto il panorama mafioso calabrese e non solo. Nei suoi verbali, il pentito afferma di poter ricostruire tutti i singoli delitti relativi alla seconda guerra di mafia, la faida che insanguinò Reggio dal 1985 (anno della morte del superboss Paolo De Stefano) al 1991. Poi ci fu la pax mafiosa, a cui si arrivò grazie all’intermediazione con i siciliani di Cosa nostra. Che, però, chiedevano qualcosa in cambio: l’omicidio di Antonino Scopelliti, titolare dell’accusa in Cassazione del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Fiume ricorda gli incontri con i «siciliani»: «Furono due. Uno all’hotel Vittoria, con Vincenzino Zappia e l’altro vicino a Limbadi, dove c’ero anch’io insieme a Peppe De Stefano e a Franco Coco Trovato». Fiume non dice di più. Già nella scorsa udienza il pm Lombard
o aveva ricordato come il pentito non potesse esprimersi oltre perché sull’assassinio del giudice calabrese «sono in corso nuove indagini coperte dal segreto istruttorio».

LE SCUSE ALL’AVVOCATO MARRA
Nel corso del controesame, rispondendo alle domande dell’avvocato Antonio Marra, Fiume ha anche avuto modo di raccontare un episodio, relativo al presunto ordine di uccidere lo stesso legale del foro reggino: «Avvocato, scusi se la interrompo – ha detto il pentito -: devo chiederle scusa, perché in uno dei miei verbali ho dichiarato che Mario Audino, quando lei lo accompagnò una volta in questura, aveva ordinato di ucciderla nel caso in cui lui fosse stato arrestato».
Fiume – l’ultimo episodio lo dimostra ancora una volta – sa molte cose. E fa paura proprio per questo.

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