Un recente sondaggio apparso sul numero di lunedì 16 luglio del quotidiano “La Repubblica”, invitava i lettori a indicare quali avvenimenti hanno cambiato maggiormente l’Italia negli ultimi trent’anni. Nella classifica dei primi undici figurano il terrorismo, la fuga dei cervelli all’estero, l’invenzione della Padania, e altri eventi politici ed economici, ma non figurano le mafie. Non so dire se il quesito non comprendeva tale voce (ed allora il sondaggio rivelerebbe un grave difetto di origine) o se, invece, il campione di italiani ha ritenuto che la presenza mafiosa non abbia inciso, negativamente, sul destino del loro Paese.
Se questa è la percezione dei cittadini, si comprende il motivo per il quale il governo non si occupa delle mafie. Se non è un problema per i cittadini perché dovrebbe esserlo per il governo e il parlamento? Meglio andare avanti a commemorazioni e celebrazioni; ricordare i tempi ormai passati della lotta alla mafia, condotta da pochissimi eroi nazionali; immergersi nella retorica e ignorare il presente. Così funziona il Paese, così continuano a funzionare le mafie: nell’indifferenza generale esse prosperano, incrementano i loro profitti, rafforzano il proprio potere e, lentamente, si fanno Stato.
Per fortuna, a ricordarci che le mafie esistono, ci pensano…le mafie stesse. La loro presenza è divenuta ormai talmente ingombrante, invasiva, da essere visibile a occhio nudo, tranne per i …non vedenti che preferiscono girarsi dall’altra parte e parlare d’altro.
Ci pensano le indagini e qualche sparuto collaboratore a rinfrescare la memoria. Cominciando dai collaboratori, recentemente Fiume, deponendo in dibattimento nel processo “Meta”, ha iniziato a parlare di temi che appaiono sicuramente di grande rilievo. Il collaboratore mostra di volere aprire il velo su almeno alcuni degli “arcana imperii” della ‘ndrangheta, sui collegamenti con poteri politici, massonici, nazionali e internazionali. Si tratta, per la prima volta dopo l’epoca dell’operazione “Olimpia”, della possibilità di esplorare il “sistema” ‘ndrangheta, di comprenderne l’invasività e la potenza, la capacità di dominio sulla città e sulla provincia. Le indagini dimostreranno se il tentativo riuscirà, sino a che punto si potrà arrivare e quali ostacoli saranno frapposti. Ne prevedo molti e molto insidiosi, ma vale la pena di tentarci. Di colpo, le immaginifiche ricostruzioni circa la dimensione epocale dell’operazione “Crimine” si ridimensionano a modesto e maldestro gioco promozionale, di colpo si comprende che non solo non c’è nulla di nuovo nello scenario mafioso della città, ma anche i protagonisti sono sempre i medesimi, tranne che per isolati rapporti di successione ereditaria. L’attribuzione del “crimine” a Peppe De Stefano è enormemente più eloquente di quella che l’assemblea plenaria di Polsi avrebbe attribuita a un Oppedisano qualsiasi.
Le dichiarazioni di Fiume, in parte già rilasciate da anni e non sufficientemente utilizzate, non sono del tutto inedite. Anche Schettini rilasciò dichiarazioni di analogo tenore, sempre sulla famiglia De Stefano, ai magistrati della Dda di Milano già negli anni ’90, ma senza riscuotere, non senza qualche ragione, fiducia, anche se oggi, a rileggerle, andrebbero attentamente riconsiderate.
Sul tema della massoneria Fiume sembra bene informato: «Reggio ha vissuto sempre di massoneria. Mico Libri quando parlava dei massoni li chiamava i “nobili”. “Non li tocchiamo, diceva, sennò ci rovinano”. Il problema sono le logge deviate. È inutile cercare le liste dei massoni nelle prefetture. Piuttosto si deve trovare il famoso libro custodito in una banca e che fu rubato durante una rapina alla quale prese parte anche Giacomo Lauro. I De Stefano, quel libro, lo volevano a tutti i costi». Di questo libro, in effetti, ne parlarono i collaboratori della prima ora, Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Si trattava in sostanza dell’elenco degli iscritti alla loggia massonica di cui era a capo il preside Cosimo Zaccone, elenco custodito in una cassetta di sicurezza della Cassa di Risparmio di Reggio Calabria. Riferì Lauro che quella cassetta venne svaligiata durante il clamoroso furto della “lancia termica” del , di cui egli era stato uno degli autori. Prelevò il prezioso libro, e, per precauzione, lo affidò ad un suo amico, massone di elevato livello, perché lo custodisse. Anche Lauro infatti sapeva che quell’elenco era “voluto a tutti i costi” da Paolo De Stefano. Sarebbe stato una formidabile strumento di conoscenze oltre che altrettanto formidabile arma di ricatto nelle mani del boss. L’amico massone morì poco dopo e quando Lauro, a distanza di anni, ne richiese la restituzione agli eredi, gli fu detto che non ne sapevano nulla. Quell’elenco è sparito e fa parte dei grandi misteri della città.
Dal canto suo Barreca riferisce agli inquirenti (operazione Olimpia): «Ho partecipato ad alcuni degli incontri avvenuti a casa mia tra Freda, Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Tali discorsi riguardavano la costituzione di una loggia super segreta, nella quale dovevano confluire personaggi della ‘ndrangheta e della destra eversiva e precisamente lo stesso Freda, l’avvocato Paolo Romeo, l’avvocato Giorgio De Stefano, Paolo De Stefano, Peppe Piromalli, Antonio Nirta, Fefè Zerbi. Altra loggia dalle stesse caratteristiche era stata costituita nello stesso periodo a Catania. La super loggia di cui ho parlato doveva avere sede a Reggio e veniva ad inserirsi in una loggia massonica ufficiale, e precisamente quella di cui faceva parte il preside Zaccone, personaggio notoriamente legato al gruppo De Stefano. Queste logge avevano come obiettivo un progetto eversivo di carattere nazionale che doveva essere la prosecuzione di quello iniziato negli anni ’70 con i moti di Reggio. Anche quello prendeva le mosse da Reggio e doveva investire tutto il territorio nazionale».
Illuminante quanto riferisce Fiume sui contatti dei De Stefano con personaggi romani, dietro i quali non è difficile scorgere l’ombra di potenti logge massoniche. Sono quelli i luoghi accessibili, secondo il collaboratore, alla ‘ndrangheta ma inaccessibili persino al Presidente della Repubblica? Quale è insomma il “livello superiore” della famiglia De Stefano che le consente di avere contatti privilegiati con la politica, con le istituzioni, di conservare, nonostante tutto, il dominio assoluto della città, sino ai nostri giorni? Altrettanto illuminante è poi il passaggio nel quale rifersice che “un magistrato da noi si avvicina con amicizia o lo si delegittima». Fiume riferisce quanto si sapeva già. Avvicinarsi con amicizia significa in sostanza essere disponibile a farsi corrompere, ad accettare compromessi e ricatti, ad aggiustare processi e dare informazioni. I nomi dei magistrati che si sono opposti al mortale abbraccio dell’amicizia con i mafiosi, sono noti: li abbiamo letti in passato e li leggiamo ancora oggi sui giornali. Il ruolo che il Ministero attraverso il suo servizio ispettivo e il Csm attraverso la sua sezione disciplinare hanno giocato in tutto questo è altrettanto noto e rivela ancora meglio l’esistenza del “livello superiore” che dirige, condiziona e suggerisce. Ma i nomi dei magistrati che si avvicinano “in amicizia” quelli sono in gran parte ignoti, ancora adesso e tranne quelli coinvolti in vicende penali, per il resto ne sappiamo poco o niente.
Sull’omicidio del magistrato Nino Scopelliti, Fiume indica i killer in due calabresi, ma già altri collaboratori ne avevano indicato i nomi, tanto che essi furono indagati ma senza esito positivo per ritenuta mancanza di riscontri.
Dunque rapporti con Cosa Nostra, con la massoneria, con la politica locale, il ruolo della ‘ndrangheta (e della massoneria?) dentro la Multiservizi ed altre società partecipate, il voto di scambio, il ruolo subalterno e condiscendene della borghesia reggina, l’egemonia assoluta dell’asse De Stefano-Condello-Tegano-Libri in città. Cade il teorema
secondo cui i politici subirebbero le pressioni dei poteri criminali. Sono i politici, secondo Fiume, a cercare i voti dei mafiosi e se questi lo danno, è perché richiedono, ed ottengono puntualmente, favori illeciti. Non si può pensare di trattare alla pari quando uno degli interlocutori imbraccia il kalashnikov e l’altro è disarmato. Chi accetta il dialogo con la mafia ne diventa automaticamente complice. Ce n’è abbastanza per intendere che, qualora riscontrate e approfondite, queste dichiarazioni possano davvero operare un salto di qualità pari a quello dell’inizio degli anni ’90, nel contrasto al sistema ‘ndrangheta.
Si aggiungano i filoni di indagine aperti recentemente dalla Dda di Reggio riguardanti i rapporti tra noti esponenti della cosca De Stefano e l’ex tesoriere della Lega Belsito, il riciclaggio compiuto, secondo l’ipotesi di accusa, attraverso i circuiti del finanziamento politico ai partiti, i misteri sottesi al crollo del “modello Reggio”, del quale la morte di Orsola Fallara costituisce il tragico, irreversibile epilogo, i flussi di denaro pubblico emigrati all’estero in non ancora chiariti investimenti, i traffici di droga e armi gravitanti intorno al porto di Gioia Tauro, i ruoli oscuri di apparati di sicurezza o di loro settori, i collegamenti con il sistema bancario e finanziario nazionale e internazionale.
È certamente singolare che queste emergenze investigative diano la sensazione di un tappo che salta, improvvisamente e da poco. Adesso però, è necessario che su questi temi lo sforzo degli uffici inquirenti reggini sia collettivo, non di qualche volenteroso magistrato, affiancato da qualche valoroso investigatore. L’esposizione a rischio sarebbe eccessiva e insopportabile, l’esito delle indagini potrebbe essere compromesso e l’uso, già annunciato, dei classici strumenti di delegittimazione farebbe il resto. È una storia già nota, che chi scrive ha conosciuto perfettamente e potrebbe descrivere nel dettaglio.
* Magistrato
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