Il dibattito della settimana è ruotato intorno al conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo in ordine alle intercettazioni delle comunicazioni telefoniche intercorse tra l’indagato Nicola Mancino e il Presidente della Repubblica. Secondo il Quirinale quelle telefonate non dovevano essere registrate e se registrate dovevano essere immediatamente distrutte, in virtù delle prerogative previste dall’articolo 90 della Costituzione in favore del Capo dello Stato e delle disposizioni del codice di procedura penale di cui all’articolo 271. Vero è che il decreto presidenziale che solleva il conflitto non specifica le norme poste a base della decisione, ma esse sono facilmente rilevabili dal testo del decreto ed è ad esse che tutti i numerosi commentatori intervenuti sull’argomento hanno fatto esplicito riferimento.
Serve una premessa, fondamentale: nelle valutazioni che seguiranno si dà per scontata sia la correttezza dei comportamenti della Presidenza della Repubblica, sia di quelli della Procura di Palermo. Fare il contrario significherebbe entrare nel merito di polemiche giornalistiche, che devono restare fuori dal ragionamento che si intende sviluppare. Ed è sulla base di tale premesse che mi pare si possa sgombrare il campo dall’ambito di applicazione dell’articolo 90 della Costituzione. Questa norma prevede che il capo dello Stato gode di totale irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, fatta eccezione per le ipotesi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. Non è, all’evidenza, il nostro caso, ma non ricorre neppure il caso, seppure in via di ipotesi, di un qualche comportamento di rilevanza penale sia pure esente da responsabilità perché compiuto nell’esercizio delle funzioni, né, per completezza, di altro comportamento illecito rientrante nella sfera privata e personale del capo dello Stato. Si tratta invece del problema della destinazione da dare alle conversazioni del Presidente, captate casualmente nel corso di intercettazioni disposte su soggetti sottoposti ad indagine, o a qualunque titolo coinvolti. È un caso che il legislatore costituente del 1948 non aveva certamente contemplato e come tale la carta costituzionale nulla dispone al riguardo. Nulla dispongono le norme del codice di procedura penale, né norme ad esse accessorie, così come nulla risulta disposto per le ipotesi in cui i soggetti casualmente intercettati siano membri del parlamento, esponenti del governo, ministri e presidente del consiglio.
Più pertinente è il richiamo alla disposizione dell’articolo 271 del codice di procedura penale, che dispone il divieto di utilizzazione delle intercettazioni e la sorte che ad esse deve essere riservata. La norma divide le intercettazioni in due categorie. La prima comprende le intercettazioni disposte fuori dei casi consentiti dalle leggi ovvero eseguite senza osservanza delle regole e delle forme previste per la loro esecuzione. Non è questo il caso delle intercettazioni di cui si parla. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo sono state disposte correttamente sia con riguardo ai casi consentiti che al rispetto di regole e forme. Nessuno peraltro ha mosso contestazioni sul punto. Il secondo gruppo di intercettazioni non utilizzabili è invece quello che riguarda le conversazioni dei soggetti che, in relazione allo stato, alla funzione ad alla professione (religiosi, medici, avvocati difensori), possono avvalersi del segreto professionale. Si tratta di categorie specificate in un dettagliato elenco contenuto nell’articolo 200, comma 1 del codice di procedura penale. Il lettore dovrà scusare il riferimento ad aspetti tecnici che possono sembrare pedanti, ma il loro richiamo è dovuto alla necessità di dimostrare che il divieto di utilizzabilità costituisce una eccezione alla regola, che vale solo per casi specifici e tassativi. Ciascuno potrà constatare come nessuna norma del codice di procedura, così come abbiamo visto per la Costituzione, prevede regole relative alla intercettazioni casuali di membri del parlamento, del governo e delle alte cariche dello Stato. Che si tratti di una lacuna è evidente. Nel caso dei parlamentari, tuttavia, la relativa frequenza di conversazioni casuali di questo tipo ha comportato l’intervento del legislatore (legge 140 del 2003, articolo 6), oltre che l’intervento della Corte di cassazione, che lungi dallo stabilire una regola di inutilizzabilità assoluta, ha invece previsto che esse sono utilizzabili, nella fase delle indagini preliminari, a condizione che ne venga dimostrata la effettiva causalità.
Posto che la distruzione delle conversazioni con il capo dello Stato non può in alcun modo essere disposta dal pubblico ministero, ma deve essere richiesta al giudice (delle indagini preliminari), resta da stabilire, ed è su questo punto che si registra il motivo del conflitto, quale sia la procedura più corretta da seguire. La competenza del giudice comporta necessariamente il contraddittorio tra le parti, tra accusa e difesa. Comporta anche la trascrizione delle conversazioni, il loro deposito, la conseguente possibilità per le parti private di prenderne conoscenza? O il contraddittorio deve formarsi esclusivamente sul punto della sussistenza o meno della causa di inutilizzabilità? Questo è il punto. Verso la prima tesi sembrerebbero orientati i procuratori di Palermo, verso la seconda si è espresso il procuratore di Catania, richiamando la prassi introdotta nella sua Procura per le conversazioni tra indagati e i loro difensori. La soluzione tiene conto del rispetto del diritto inviolabile alla difesa stabilito dall’articolo 24 della Costituzione, ritenuto prevalente sul diritto al contraddittorio. Nessuna delle due alternative può, allo stato della nostra legislazione, definirsi illegittima, nessuna di esse è stabilita espressamente dalla legge per il caso in discussione. La Corte costituzionale non potrà certo esimersi dal fornire risposta al conflitto sollevato dal capo dello Stato e dovrà pronunciare una sentenza che ricostruisca una disciplina normativa desunta dai principi costituzionali e dalla normativa ordinaria vigente. Probabilmente solleciterà anche il legislatore a provvedere a dare soluzione legislativa chiara e definitiva.
Un’ultima considerazione. Le polemiche giornalistiche e in parte politiche che sono derivate dal conflitto di attribuzione sono probabilmente dovute al dubbio, non sappiamo se espresso in buona o mala fede, che la questione possa in qualche modo incidere sull’indagine palermitana in corso su trattativa Stato-mafia e indagini connesse. Per fortuna non è così, così come del tutto estraneo alle sorti dell’indagine è il problema di un ipotetico ricorso al segreto di Stato, che non sarebbe consentito per reati di criminalità organizzata e di strage.
* Magistrato
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