MILANO Sei ergastoli per l`omicidio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia crotonese sequestrata e uccisa in Lombardia. Lo ha deciso la Corte d`Assise di Milano che lo scorso marzo ha condannato al carcere a vita l`ex compagno della donna, Carlo Cosco, e altri 5 imputati. I giudici hanno così sentenziato dopo che le indagini hanno accertato che la donna sarebbe stata sciolta nell`acido. Ma il ritrovamento dei resti di un corpo carbonizzato trovato in Brianza potrebbe cambiare la ricostruzione dell`atroce vicenda. Eppure resta una grave responsabilità di quelli che il Tribunale di Milano ritiene gli assassini di Lea.
La Corte d`Assise, presieduta da Anna Introini, ha condannato anche a due anni d`isolamento diurno Carlo Cosco e il fratello Vito Sergio Cosco. L`altro fratello Giuseppe Cosco e gli altri complici, accusati a vario titolo del sequestro, dell`omicidio e della distruzione del cadavere, cioè Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino sono stati condannati all`ergastolo con un anno di isolamento diurno. I giudici dunque hanno accolto in pieno la richiesta del pm della Dda di Milano, Marcello Tatangelo, che ha coordinato le indagini, assieme all`aggiunto Alberto Nobili. La Corte ha anche ordinato la trasmissione alla Procura per eventuali valutazioni su profili di reato delle testimonianze di otto persone.
La figlia di Lea, Denise, parte civile contro il padre, è stata una dei testi fondamentali dell`accusa. «Il fatto più importante – ha commentato subito dopo la sentenza l`avvocato Enza Rando, legale di Denise – è che una giovane ragazza a cui hanno ucciso la mamma ha avuto il coraggio di essere testimone di giustizia. Ha rotto la paura e l`omertà e ha portato il suo contributo a scrivere una pagina di verità». La ventenne ha atteso “nascosta” per motivi di sicurezza, la sentenza di condanna per l`omicidio della madre. Il padre di Denise è stato dichiarato «decaduto dalla potestà genitoriale». La potestà genitoriale è stata tolta anche a tutti gli altri imputati condannati al carcere a vita. I giudici hanno condannato gli imputati anche a risarcire la figlia, la madre e la sorella di Lea Garofalo.
Il pm all`inizio della sua requisitoria aveva affermato però che Carlo Cosco non è mai stato condannato per associazione mafiosa e dunque per quella uccisione non può essere a lui contestata l`aggravante di aver agito per finalità mafiose. «L`aggravante viene contestata quando è provato il fine di agevolare l`associazione mafiosa – ha chiarito il pm in aula – ma deve essere provata quindi anche l`esistenza della “sottostante” associazione. E in questo caso abbiamo una sentenza che ha stabilito che tale associazione non c`era». Il riferimento è a una sentenza degli anni scorsi a carico di Carlo Cosco e del fratello Giuseppe (anche lui a processo per l`omicidio e il sequestro di Lea con altre 4 persone) su un traffico di stupefacenti con base a Milano.
Il pm Tatangelo sempre nel corso della requisitoria ha “denunciato” anche il «grossolano errore» della Commissione ministeriale che, nel 2006, le revocò il programma di protezione non ritenendola «attendibile», il pm Tatangelo, nella sua lunga requisitoria nel processo per la morte di Lea Garofalo. La donna entrò nel programma di protezione nell`estate 2002, protezione che le venne revocata nel 2006, poiché le sue dichiarazioni ai magistrati erano rimaste senza riscontri. Poi però, ha spiegato il pm in aula, «giustamente intervenne il Consiglio di Stato che annullò quella decisione», perché la Commissione ministeriale aveva fatto «un grossolano errore procedurale, dato che un collaboratore può essere attendibile anche quando non si trovano riscontri alle sue dichiarazioni». La crotonese rimase sotto protezione fino all`aprile del 2009, quando poi «decise lei stessa di uscire dal programma per cercare un contatto con il compagno e capire se poteva vivere senza la paura di morire». Scomparve per sempre tra il 24 e il 25 novembre del 2009.
Il processo ha rischiato di subìre uno stop con il “cambio” di presidenza della prima Corte d`Assise in seguito alla nomina a capo di gabinetto al ministero della Giustizia di Filippo Grisolia. Infatti, la figlia di Lea, Denise, testimone chiave, è stata risentita nel corso del dibattimento.
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