MILANO Gli inquirenti attendono l`esito del dna per scoprire se i resti rinvenuti in Brianza siano di Lea Garofalo, la testimone di giustizia di Petilia Policastro che fino ad oggi si riteneva fosse stata sciolta nell`acido. E intanto il pensiero di magistrati e istituzioni va alla giovane Denise, la figlia di Lea e di Carlo Cosco, condannato all`ergastolo per aver ucciso la sua ex compagna.
«Per un anno non ho detto nulla a mio padre, pur sapendo che lui e gli altri avevano ucciso mia madre, cercavo di autoconvincermi che non era andata così, anche se sapevo che quella era stata la sua inevitabile fine». Con queste parole e con una voce da ragazza, ma decisa e sicura, Denise, nel settembre del 2011, ha testimoniato davanti ai giudici della prima Corte d`Assise di Milano, dietro un paravento e a pochi metri dal padre, chiuso nella gabbia degli imputati. Denise si è costituita parte civile nel processo a carico del padre, Carlo Cosco, e di altre 5 persone, ritenute vicine a una cosca della `ndrangheta del Crotonese e tutte imputate a vario titolo per il sequestro e l`omicidio della donna, avvenuto a Milano. Lea, stando alle indagini, sarebbe stata uccisa come punizione per la sua collaborazione con la giustizia su fatti che riguardavano l`ex compagno e il suo clan. Davanti ai giudici, la ragazza ha ripercorso tutta la vita passata al fianco della madre, «una donna sola e solitaria, proprio per le scelte che aveva fatto, con cui avevo uno stretto legame, come tra amiche».
Ha raccontato degli anni passati, tra il 2002 e il 2008, saltando da una città all`altra all`interno del programma provvisorio di protezione, a cui poi la donna rinunciò, cercando di riallacciare i rapporti con l`ex compagno per «salvaguardare la vita della figlia e la sua». Poi la ragazza ha descritto quella sera a Milano, il 24 novembre 2009 (gli arresti sono dell`ottobre 2010), in cui «l`hanno fatta sparire». Anche Denise era a Milano quel giorno e la madre non arrivò mai alla cena a casa dei parenti del padre. «Io avevo capito, ma a mio padre non gliel`ho fatto capire», ha detto la ragazza, sempre con decisione. «Sono stata un anno con loro, ho giocato con i loro figli, pur sapendo che avevano ucciso mia madre». Intanto, però, i carabinieri riempivano i verbali con i suoi racconti e gli inquirenti indagavano. E quando il pm Marcello Tatangelo le ha chiesto perché non avesse mai detto nulla a suo padre, lei le ha risposto: «Dovevo fare la stessa fine di mia madre?».
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