Arriviamo al campo di San Ferdinando e la scena parla da sé: una discarica di immondizia ci introduce a una discarica dell`umano. Alle tende della Protezione civile piantate dopo la rivolta dei migranti del 2010 si è aggiunta nel corso del tempo un`altra tendopoli, fatta di cellophane e di ethernit, dove vivono, si fa per dire, altri 600 lavoratori stagionali pervenuti via via in quel di Rosarno e dintorni. Vengono dal Senegal, dal Mali, dal Ghana, da ogni angolo del continente sepolto dall`ordine del discorso occidentale, per ritrovarsi sepolti anche loro in questa discarica. L`Europa culla della civiltà, l`Europa sempre a venire, perennemente in costruzione e perennemente barcollante, muore a Rosarno oggi della stessa malattia di cui morì sotto il nazismo, la pratica del campo. Un campo è un campo, oggi qui come ieri a Aushwitz: un filo spinato che traccia il confine fra l`umano e il non umano, fra la libertà e la segregazione, fra il visibile e l`invisibile, il dicibile e l`indicibile. Di là dal filo spinato, sopravvivono, solo uomini e uomini soli, fra rifiuti, latrine, stracci, docce improvvisate nel freddo gelido, residui del cibo distribuito dalla Charitas, dagli Amici di Jonas, dalle donne di Rosarno e San Ferdinando che cucinano anche per loro. Di qua dal filo spinato vaghiamo noi, Alba, Laura, Antonio e gli altri visitatori di SEL, sepolti a nostra volta dagli inutili sensi di colpa, cercando di capire com`è possibile che a tutto questo ci si abitui, ci siamo, di fatto, già abituati: sappiamo ma continuiamo a vivere, noi donne e uomini «liberi», come se non sapessimo. A cavallo del filo il sindaco di San Ferdinando che scrive a tutti, dal Presidente della Regione al Presidente della Repubblica, lettere che restano senza risposta, e le compagne e i compagni della Piana, lacerati fra la solidarietà ai migranti e quella agli ultimi «nostri», impoveriti dalla crisi che falcidia redditi e posti di lavoro, nella trincea quotidiana di una guerra fra poveri sempre a rischio di esplosione, dove allo sfruttamento del lavoro maschile si aggiunge lo sfruttamento della prostituzione femminile delle migranti che arrivano non da Sud ma da Est e si offrono al confine fra il campo e il paese. Fra le tende i migranti sorridono, ringraziano – loro! -, stringono mani, raccontano la loro storia sempre uguale: viaggi avventurosi all`andata e costosi al ritorno, permessi di soggiorno, il lavoro nella Piana finché ci sono le arance, poi i pomodori a Foggia o le mele nel Trentino, poi di nuovo qua o, se i soldi bastano, un intervallo in Africa a ritrovare le mogli e i figli, paghe da fame, gerarchie al loro interno con i caporali che li sfruttano, chilometri a piedi ogni giorno sulla Nazionale dove ci scappa sempre qualche morto in bicicletta. Torneranno, malgrado il campo? Sì, torneranno. Non alzano le pretese, «loro». Siamo noi a doverle alzare, per loro e per noi. La chiamano ancora emergenza, ma è diventata una tragedia strutturale, che ha bisogno di risposte strutturali: un centro di accoglienza a norma, un`agricoltura di qualità basata sulla filiera corta che elimini lo sfruttamento dei migranti e insieme quello degli agricoltori vessati dalle multinazionali. L`abolizione della Bossi Fini e dei Cie. Una commissione parlamentare d`indagine che renda noto a tutti quello che troppi vogliono continuare a ignorare. Anche in campagna elettorale, perché se i migranti non votano a che serve parlarne? Serve per restare umani, «noi». Serve per rimettere la Calabria in Europa e l`Europa a Rosarno, dove non si consuma un`emergenza locale ma una tragedia globale, che ci chiama tutte e tutti, ciascuna e ciascuna, a dire basta.
*candidati Sel alla Camera e al Senato
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