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Processo Meta, l`accusa: confermare le condanne

REGGIO CALABRIA Conferma delle condanne per tutti gli imputati: è questa la richiesta con cui il pg Adriana Fimiani ha concluso la sua requisitoria al processo d’appello del filone che si svolge in…

Pubblicato il: 25/03/2013 – 16:04
Processo Meta, l`accusa: confermare le condanne

REGGIO CALABRIA Conferma delle condanne per tutti gli imputati: è questa la richiesta con cui il pg Adriana Fimiani ha concluso la sua requisitoria al processo d’appello del filone che si svolge in abbreviato del procedimento Meta. Nonostante l’integrazione di istruttoria, che ha portato a sfilare di fronte alla Corte anche il pentito Nino Lo Giudice e l’ufficiale che gli inquirenti ritengono al soldo dei clan, Saverio Spadaro Tracuzzi, nessuna modificazione di pena ci deve essere, secondo il pg, per i 17 imputati che il 29 novembre 2011 sono stati condannati dal gup Adriana Trapani a un totale di oltre 140 anni di carcere, con pene variabili dai 2 ai 16 anni di reclusione.
La decisione della Corte d’appello è la seconda prova che dovrà affrontare l’inchiesta coordinata dal pm Giuseppe Lombardo, che ha disegnato con sempre maggiore dettaglio il mosaico dei nuovi equilibri criminali scaturiti dalla seconda guerra di `ndrangheta. Un mosaico complesso, profondamente mutato rispetto a quello molecolare di epoca precedente al conflitto, ma con esso in linea di continuità. Un mosaico in cui le `ndrine continuano a darsi appuntamento a Polsi, ma a governare è un direttorio formato dalle principali famiglie reggine – Tegano, De Stefano, Condello, Libri – che si è affermato all`indomani della seconda guerra e da allora ha stabilito le proprie leggi, imparando a gestire in regime di concordia tanto gli affari come i contrasti interni che rischiavano di far saltare i delicatissimi equilibri, raggiunti al prezzo di un conflitto da oltre settecento morti ammazzati.
È successo – hanno rivelato i pentiti, sia in fase di indagine, sia in dibattimento – quando Peppe De Stefano, ha voluto rivendicare per sé il ruolo che era stato del padre, quel don Paolino che della potenza dei De Stefano come holding criminale è stato il demiurgo. Sarà lui, ha rivelato più di un collaboratore, a prendere in mano le redini della famiglia con l`appoggio dell`avvocato Giorgio. Ma soprattutto con il benestare di Pasquale Condello, quel Supremo che si interpone nel conflitto fra i De Stefano e i Tegano con il fondamentale ruolo di mediatore. Uno scenario inimmaginabile solo una decina di anni prima, quando i Condello da una parte e i De Stefano- Tegano dall`altra si erano mutuamente massacrati, ma che è in assoluta continuità con il regime che quel conflitto precede. Un regime in cui è all`ombra di don Paolino che nasce e cresce l`astro criminale di quello che diventerà il Supremo. Lo stesso personaggio che vent`anni dopo – ipotizza l`inchiesta Meta – restituisce al figlio la carica e il ruolo che trent`anni prima erano stati del padre.
Sono questi i principali protagonisti di quel direttorio – dice l’inchiesta Meta – che dalla fine della seconda guerra di `ndrangheta si è dimostrato in grado di gestire la vita economica, politica e sociale della città. Una struttura che, in linea di continuità con quei patti scellerati fra `ndrine, massoneria, servizi e pezzi di Stato svelati dall’inchiesta Olimpia, nei decenni successivi è diventata altro. O meglio, parte di altro. Un ‘altro’ non ancora definito in sede giudiziaria ma che l’inchiesta Sistemi Criminali dell’attuale procuratore capo di Palermo, Roberto Scarpinato ha abbozzato e che l’indagine Meta si candida a iniziare a definire.
Una struttura che va ben oltre la Calabria, ben oltre le ‘ndrine, radicata e sviluppata nel tempo su tutto il territorio nazionale, così solida da non necessitare neanche di incontri o riunioni periodiche, ma capace di riattivarsi immediatamente – anche a distanza di decenni – su preciso e inconfondibile input. Una struttura la cui esistenza è stata confermata non solo dalle parole di collaboratori – un tempo uomini di peso del sistema criminale tanto in Calabria come in Sicilia o Lombardia – che da tale struttura si sono spesso visti sovrastare senza riuscire a comprenderla fino in fondo, come l’ex braccio destro dei fratelli De Stefano, Nino Fiume, il collaboratore lombardo Antonio Belnome o il siciliano Vincenzo Sinacori, reggente del mandamento di Mazara del Vallo. Dichiarazioni che si incrociano e trovano conferma nelle rivelazioni fatte in tempi diversi da altri pentiti, come Pasquale Nucera, Filippo Barreca e ancora una volta un siciliano, Gioacchino Pennino, o nelle conversazioni intercettate del Luni Mancuso.
E tutti parlavano e parlano di un livello ancora invisibile, ma determinante nel guidare le scelte strategiche non solo locali o regionali, puntuale e preciso nel rispondere quando si sente minacciato, dotato di occhi e orecchie altrettanto impercepibili, ma sempre all’erta quando ipotesi investigative si dimostrano di così ampio respiro da trascendere la dimensione di chi si diletta con cariche e santini, arrivando a toccare i centri decisionali dei nuovi sistemi criminali. E forse, almeno in parte, dello Stato stesso. (0090)

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