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BLACK MONEY 2 | Tutti nell`ufficio di “zio Luni”

VIBO VALENTIA L`ufficio di Pantaleone Mancuso è un casolare. Vi riceve i suoi amici per parlare di affari. Il boss di Limbadi crede nei vecchi valori deviati della `ndrangheta, tiene molto all`esib…

Pubblicato il: 27/03/2013 – 17:20
BLACK MONEY 2 | Tutti nell`ufficio di “zio Luni”

VIBO VALENTIA L`ufficio di Pantaleone Mancuso è un casolare. Vi riceve i suoi amici per parlare di affari. Il boss di Limbadi crede nei vecchi valori deviati della `ndrangheta, tiene molto all`esibizione di un potere che si fonda sul controllo. E ha le mani in pasta in tutti i settori. Attraverso un prestanome – è questa l`opinione che si sono fatti gli investigatori –, a cui è intestata la società Central Parks, gestisce i posteggi nel centro commerciale “Le Cicale”, a Ionadi. E quel prestanome è tenuto a pagare il figlio del capo, Giuseppe. Quando non lo fa, piovono minacce («gli rompo le corna… se lo prendo gliene do tante io»). Vecchi metodi e nuovi affari: Mancuso rappresenta la transizione tra il mafioso vecchio stile e i broker della `ndrangheta. Non ha le capacità imprenditoriali per gestire i nuovi business ma il fiuto non manca, e neppure i luogotenenti pronti a prestarsi all`opera.
I vecchi metodi, però, sono sempre i migliori. Nel casolare, “zio Luni” racconta di come, una volta, recuperò il credito che gli doveva un tipo di Torino. Racconta «di averlo sequestrato per un intero giorno e di averlo picchiato» davanti a qualche piatto tipico: «Si è fatto mezzogiorno e siamo andati a mangiare… lui grondava sangue. Siamo andati in una bettola che erano paesani, abbiamo mangiato là e lui gli scorreva sangue dal naso. E io stavo lì che mangiavo: “Mangia cornuto! Te l`avevo detto che venivo a Torino!”». Tutto molto pulp. Ma il potere è nel controllo e non si può perdonare un debitore.
Metodi da macelleria messicana e occhio lungo per gli affari: nel casolare si sente di tutto. Come quella volta, il 18 ottobre 2010, che un amico del boss, Giuseppe Cosentino, gli spiega «di essere stato contattato da una persona indicata come “il fratello del medico di base, del sindaco là”, il quale lo aveva intormato della loro intenzione di realizzare il termovalorizzatore nella provincia di Vibo Valentia e di aver già trovato i 5-6 Comuni interessati alla realizzazione». La conversazione praticamente si interrompe, ma il segnale è significativo: tutti i progetti – soprattutto quelli che potrebbero far muovere capitali significativi – passano dall`ufficio del capoclan. Che riferisce di rapporti ai livelli più alti dell`imprenditoria. Lo fa in una conversazione del 7 ottobre 2011, dalla quale, secondo i magistrati della Dda di Catanzaro, «emerge l`ulteriore prova della capacità del capocosca di intessere rapporti con esponenti della società imprenditoriale e politica della provincia. In tale circostanza, Mancuso riferisce dei rapporti con l`eccellenza imprenditoriale calabrese. In merito all`imprenditore Santo Lico, al figlio Michelino Roberto Lico e al presidente del Consorzio di sviluppo industriale, Giuseppe Bonanno, affermava: “Io lo conosco, lo conosco bene a questo! Abbiamo mangiato assieme con Santo (Lico Santo, ndr), Michele (Lico Michele Roberto, ndr), lui (Bonanno Giuseppe, ndr), la cognata, la sorella». Nomi altisonanti, che fanno drizzare le antenne degli investigatori: «Santo Lico (deceduto il 27 dicembre 2009) è stato uno tra gli imprenditori più importanti del panorama calabrese. Inoltre, il figlio Michelino Roberto Lico è imprenditore e attualmente riveste la carica di presidente della Camera di commercio di Vibo Valentia». Dalle conversazioni in “ufficio” emergono altri spunti inquietanti. Quanto è realmente vasta la tela intessuta dal boss della cosca Mancuso? (0020)

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