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L`IMPERO DI DON ROCCO | Musolino e i suoi amici: dal giudice Montera ai medici di Villa Caminiti

REGGIO CALABRIA Se in ambienti di `ndrangheta è la ballata composta dal suo autista, Stefano Morena, genero del boss Santo Araniti, a narrarne le gesta e in ambito economico e finanziario, sono i q…

Pubblicato il: 03/04/2013 – 10:56
L`IMPERO DI DON ROCCO | Musolino e i suoi amici: dal giudice Montera ai medici di Villa Caminiti

REGGIO CALABRIA Se in ambienti di `ndrangheta è la ballata composta dal suo autista, Stefano Morena, genero del boss Santo Araniti, a narrarne le gesta e in ambito economico e finanziario, sono i quattrini e le ricchezze accumulate a spiegare chi sia don Rocco Musolino, nelle cronache giudiziarie sono stati pentiti di primo piano a spiegare chi fosse il «saggio della montagna». È Giacomo Ubaldo Lauro, uno dei primi pentiti di `ndrangheta a parlare di Musolino. Secondo i suoi racconti, un personaggio importante, in grado di dribblare la delicatissima situazione venutasi a creare con l’omicidio dell’allora incontrastato boss, Giorgio De Stefano, uscito vincitore dalla prima guerra di `ndrangheta, ma il cui atteggiamento espansionista poco piaceva agli altri clan. Di certe questioni bisognava discutere. Bisognava – racconta Lauro – «stabilire la spartizione dei lavori subentrati con la fine della prima guerra di mafia, in poche parole, dopo la morte di Antonio Macrì e Domenico Tripodo, bisognava verificare le alleanze e gli interessi dei locali usciti vincitori. I suddetti lavori consistevano nella realizzazione del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, del raddoppio del binario Villa San Giovanni-Reggio Calabria, la Liquilchimica e le grandi officine meccaniche delle ferrovie». Per questo, il gotha della `ndrangheta si dà appuntamento in Aspromonte, ma lì in contrada Acqua del Gallo, proprio nel territorio di don Rocco, De Stefano viene ucciso in un agguato. A sparare, sarebbe stato Giuseppe Surace, il cognato di don Rocco, la cui testa – secondo quanto racconta il pentito Paolo Iannò – sarebbe stata consegnata ai De Stefano a testimonianza dell’avvenuta esecuzione ordinata dallo stesso Musolino. Una reazione che spiega perché – come indica Lauro – Musolino costituisse «unitamente a Francesco Serraino e a Gioffrè Francesco – detto Braghetta – il trio che comandava incontrastato la montagna, e cioè tutto l’Aspromonte, dal versante jonico a quello tirrenico. Il loro grado in seno alla `ndrangheta era quello di saggi e ciò comportava che nessuna decisione importante potesse essere assunta senza il loro consenso. Questi personaggi erano legati da inquietanti rapporti con personalità eccellenti esponenti delle istituzioni».

LIGATO, I DE STEFANO E UNA TRATTATIVA ANDATA MALE
Rapporti come quello con l’onorevole Lodovico Ligato, ex potentissimo presidente delle Ferrovie dello Stato, ritenuto vicino al clan De Stefano, i cui castelli societari che negli anni Settanta rastrellano appalti e commesse, non sarebbero stati graditi al clan Condello, che ne avrebbe disposto l’eliminazione. Ma prima – racconta Lauro – «era stato tentato un avvicinamento, attraverso l`ex sindaco Cozzupoli, e su iniziativa di Rocco Musolino (a suo dire personaggio mafioso di Santo Stefano), nel tentativo di ridurre il Ligato a miti consigli. Il suo gruppo era convinto che togliendo di mezzo Ligato avremmo spianato la strada a chi ci aveva promesso di aiutarci e di sostenerci in questa guerra di mafia attraverso gli appalti e i lavori. Il tentativo non andò a buon fine e il Ligato venne eliminato fisicamente dal nostro gruppo, cioè dal gruppo Condello-Serraino-Rosmini». Circostanze che spingono gli inquirenti ad affermare che «il Musolino non ha un rapporto passivo nei confronti dei personaggi di cui stiamo parlando, bensì, per come su illustrato, un rapporto dinamico di interazione, anche alla luce della circostanza che doveva essere lui ad avvicinare l’onorevole Ligato prima del suo omicidio per illustrare le istanze dello schieramento Imerti-Condello- Serraino».
Sarà un altro storico pentito, l’ex capolocale di Pellaro, Filippo Barreca, a riferire agli inquirenti quale fosse – proprio alla luce di tali rapporti – il ruolo di Musolino. «Era un capo carismatico ed era personaggio che aveva rapporto con il mondo istituzionale… in poche parole era un grosso massone che… per quello che mi risulta, che più volte Araniti mi ha ribadito… era il personaggio chiave del mondo politico ed istituzionale… cioè si rivolgevano a lui per… come dire… l’aggiustamento dei processi». E ancora: «Insieme a Ciccio Serraino e Ciccantoni brachetta Gioffrè costituivano una triade importantissima all’interno di tutta la “`ndrangheta” calabrese, e, dei tre, il Musolino aveva un ruolo di ulteriore supremazia grazie ai suoi collegamenti politico-massonici di cui ho già detto. Legatissimo a Santo Araniti mi consta personalmente per averlo appreso dalla viva voce dell’Araniti che più volte il Musolino si interessò in vicende giudiziarie. Ritengo che ulteriori particolari su Rocco Musolino potrebbero essere forniti dal suo notaio Marrapodi il quale con il Musolino apparteneva alla medesima loggia massonica, come ebbi modi di apprendere da Santo Araniti».

LE CONFIDENZE PERICOLOSE DEL NOTAIO MARRAPODI
Notaio di riferimento per i clan della città come della Jonica, per Lauro, Giacomo Marrapodi – indicano i magistrati – «è il classico fiancheggiatore, non già “organico” alla cosca bensì concorrente esterno offrendo la sua autorevole funzione pubblica per favorire i propositi ed i fini delinquenziali del sodalizio». Dirà, infatti, Lauro di fronte ai pm «sono in condizione di escludere che il Marrapodi fosse “uomo d’onore” nel senso che fosse stato “battezzato come malandrino”, e ciò perché era massone, e le sue regole, pertanto, glielo impedivano … omissis … ciò non toglie che egli, per come ho spiegato, fose di fatto affiliato alla ‘ndrangheta».
Ma sarebbe un uomo prezioso per i clan ai quali sarebbe legato, la cui essenziale funzione sarebbe quella di uomo cerniera fra la massoneria, i salotti buoni e le istituzioni dell’epoca. Non a caso è lui che il boss Ntoni Nirta sceglie come testimone di nozze per il figlio. Una scelta non casuale per Lauro, per il quale – scrivono i pm – «quel ruolo così importante attribuitogli non era altro che una sorta di consacrazione dell’appartenenza del notaio alla ‘ndrangheta e specificamente a quella vincente, dato che la famiglia dei Nirta, insieme con le più potenti famiglie della Jonica e della Tirrenica erano legate a quella dei De Stefano di Reggio Calabria … omissis … col mostrarsi del notaio in quella solenne occasione fu come se venisse mostrato alla intera comunità mafiosa».
Sarà proprio il notaio Marrapodi, nel suo brevissimo periodo di collaborazione con i magistrati, precedente al curioso suicidio che lo interrompe bruscamente, a dare agli inquirenti elementi preziosi per comprendere la rete dei rapporti istituzionali di don Rocco Musolino, all’epoca vicesindaco democristiano di Santo Stefano. Rivelazioni che preoccupano tanto Musolino come il suo entourage, se è vero che sarà proprio il notaio ad annotare nella sua agenda «ore 12.30 mi riferisce Franco Greco (storico boss di Calanna, padre dell’attuale pentito Giuseppe, ndr) che circa due settimane addietro “don” Rocco gli ha detto che si è rivolto a lui il giudice Giovanni Montera per farlo intervenire su di me, al fine di fermarmi nell’azione contro alcuni magistrati. Don Rocco chiedeva al Greco se io fossi sempre un uomo saggio o se fossi divenuto pericoloso perché esaurito».

AMICI CON LA TOGA
Preoccupazioni non casuali, se è vero che fra gli uomini di Musolino ci sarebbero anche personaggi del calibro del giudice Montera, finito nei guai proprio a causa delle dichiarazioni di Marrapodi, ma che riuscirà a dribblare con un’archiviazione il procedimento a suo carico istruito dalla Dda di Messina. D’altra parte, è lo stesso Montera a confermare l’esistenza di rapporti diretti con Musolino, ma riconducibili – stando a quanto afferma nella denuncia per diffamazione sporta contro Marrapodi nel `94 – a meri rapporti d’affari, legati a un piano di lottizzazione sviluppato dal Comune di Santo Stefano. Peccato però, che i rapporti fra don Rocco Musolino e il giudice – affettuosi e confidenziali, annotano gl
i inquirenti – abbiano superato gli anni Novanta e le disavventure giudiziarie di entrambi e siano arrivati indenni fino ai giorni nostri, come testimoniano centinaia di intercettazioni. È per questo – affermano gli inquirenti – che «personaggi come il Musolino Rocco, proprio perché presenti ad un tempo nel vertice malavitoso ed in quello della massoneria coperta, hanno pilotato per decenni l’evoluzione criminale nella provincia reggina, avendo carisma necessario per affiancare Serraino Francesco in redditizie attività commerciali e prepotenti scalate delinquenziali ed ancora per saldare stabili contiguità con uomini delle istituzioni attraverso i canali privilegiati che “fratelli” come il Marrapodi potevano loro impunemente assicurare». Ma nella rete di don Rocco – dicono gli inquirenti – ci sono anche personaggi come Pietro Patafi, vicesindaco del Comune di Campo Calabro (Rc) ed ex presidente del consiglio provinciale, che per l’anziano patriarca – sempre secondo quanto è emerso – si occupa di seguire personalmente l’evoluzione delle pratiche presso l’Afor a Catanzaro. E non a caso, come si evince da una conversazione fra i due, intercettata dagli investigatori, è Patafi a comunicare a Musolino che «la sua pratica è stata definita pronta per essere pagata ma tutti i pagamenti Afor sono stati bloccati dalla giunta regionale… […] continuando afferma che […] … è con le spalle al muro e che quella di Rocco è l’unica pratica definita e devono aspettare che il bilancio dia i soldi per pagare le pratiche inevase. Rocco ringrazia il dottore».

AMMINISTRATORE UNO E TRINO
Non meno utili per il “re della montagna” sarebbero i rapporti e le frequentazioni con il neoeletto presidente dell’Ordine dei commercialisti, Bernardo Femia, in passato amministratore giudiziario dei beni di Musolino. Un rapporto proseguito anche in seguito, se è vero che – tutt’oggi – è con tutta l’arroganza del suo rango criminale che l’ex vicesindaco di Santo Stefano può permettersi di chiamare in studio e pretendere di parlare con il dottore. Anche in questo caso si tratta di rapporti lunghi e consolidati nel tempo, cementati da una procedura di tutela giudiziaria a dir poco curiosa, se è vero che oltre a Femia, sono stati nominati amministratori del patrimonio di Musolino, anche Luigi Tassone e Antonio Labate, con i quali ha collaborato Demetrio Turiano, commercialista personale del patriarca. Una circostanza a proposito della quale gli inquirenti non possono fare a meno di annotare: «Appare a dir poco singolare la “evoluzione” del suo ruolo: da collaboratore degli amministratori giudiziari a consulente di parte nell`interesse del Musolino stesso. Sono inevitabili e ineludibili le domande sul ruolo che Musolino abbia potuto avere nel determinare, direttamente o indirettamente, questa singolare “evoluzione”, soprattutto se si tiene conto della ratio della normativa in tema di amministrazione giudiziaria, orientata a evitare qualunque ipotesi di interferenza o di conflitto di interessi. Allo stesso modo si può notare che il Femia riveste la carica di revisore dei conti per il Comune di Santo Stefano in Aspromonte».
Ma fra gli amici di don Rocco, che la ballata a firma del suo autista e collaboratore non dimentica di citare, ci sono anche quelli della clinica Caminiti a Villa San Giovanni, dove il patriarca decide di farsi ricoverare dopo l’attentato subito nel 2008, perché – sottolineano gli inquirenti – «presso la succitata struttura ospedaliera godeva dell’amicizia e del rispetto della proprietaria della clinica e della maggior parte dei medici che ivi impiegati». Un altro pezzo di mondo che si “inchina” al passare del “re della montagna”. (0050)

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