Riace è un po’ come una mamma dal grembo sempre gravido e dallo spirito sempre giovane. Tra le vie colorate d’arcobaleno si respira l’odore del mondo e dalle case a pietra, solo a fino poco tempo fa traspiranti muffa e abbandono, si annusano sapori di civiltà contemporanea di salame e di zighinì, di tabula e di karkadè. Per Laura Boldrini, poi, andarci è sempre come ritornare a casa. Del resto, questo paese «multiculturale come Londra» lei l’ha visto nascere, crescere e diventare grande a piccoli passi, anno dopo anno, mattone sopra mattone.
Emozione, palpabile sin dall’inizio, è il ritratto perfetto di un pomeriggio particolare, iniziato con l’Inno d’Italia cantato da dieci colori e facce diversi e finito con un ritrovo a cena lontano dai soliti cerimoniali. Nel mezzo, tutta una serie di parole e iniziative di incoraggiamento reciproco, dalla consegna della cittadinanza onoraria, all’omaggio dei prodotti artigianali provenienti da ogni parte del mondo, dalle testimonianze dei padri e delle madri orfani dei propri figli ammazzati dalla ‘ndrangheta, all’immancabile “Bella ciao” internazionalizzato: da un lato la forza d’animo dei bambini immigrati, vogliosi di esprimere contemporaneamente gratitudine e paura e dall’altro la voglia istituzionale di intraprendere percorsi e azioni di rinnovata civiltà.
«Sono Emal, vengo dall’Afghanistan, quando sono sbarcato mi hanno chiamato numero 23. Presidente mi faccia tornare ad essere un uomo, non un numero»; «Sono Karima, vengo dall’Eritrea, sono sola con mia mamma, ho viaggiato per mesi prima di trovare pace in Italia. Voglio dirle grazie, presidente»; «Sono Giosuè, ragazzo italiano in minoranza felice di avere amici di tutto il mondo». Per loro, per questi bambini, la visita di Laura Boldrini non è parata. Per loro, questa visita può significare tanto, forse tutto. E la presidente non ha di certo, almeno e per adesso a parole, deluso le loro aspettative, parlando alla gente con rabbia e impegno, dettate evidentemente dalla sua profonda umanità e dalle esperienze, a prescindere dai ruoli ricoperti e dai copioni già scritti.
Rabbia dettata dall’amara consapevolezza di aver avuto in mano delle occasioni importanti, come per esempio la legge regionale sull’accoglienza, creata ad hoc proprio in Calabria e mai messa in atto, e impegno a tema con la certezza di lavorare prossimamente in Parlamento su nuove misure per l’immigrazione e gli asili. «In questa piazza – ha esortato – stiamo dicendo che la convivenza civile è possibile. In questa piazza stiamo dicendo che dall’unione può nascere ricchezza. In questa piazza c’è un sindaco con una visione politica certa e senso della realtà. Un sindaco che ha tirato il meglio della sua comunità e che oggi può dirsi esempio per l’Italia intera».
E intanto lui, il sindaco, alias “Mimm’u’curdu”, si tiene stretto il suo capolavoro, convinto, ma mai domo, di essere un faro di speranza per i rifugiati del mondo e, all’occorrenza, una scuola per il Paese intero. «Le eccellenze – ha umilmente spiegato durante il suo intervento – non devono farci dimenticare le realtà circostanti. Appena fuori queste mura – in riferimento alla sottomessa società calabrese – abbiamo gravi problemi. Bisogna sfidare l’impossibile».
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