“Libera me Domine,de morte aeterna”! In die illa tremenda… dies illa dies irae, calamitatis et miseriae! Era il canto, rigorosamente in latino che, quando ero chierichetto, cantavamo in Chiesa in una giornata di lutto. Giorni tremendi, giorni dell’ira, calamità e miseria:liberaci o Signore. Mi è venuto in mente leggendo di tre disoccupati di Marina di Gioiosa Ionica, che pure non è un paese arretrato, che si sono recati davanti alla sede dell’assessorato regionale al lavoro (Lavoro?, si fa per dire, ovvio) a Catanzaro per protestare, silenziosamente e civilmente, tanto che nessuno tra quanti avrebbero dovuto intervenire -l’assessore pro-tempore, peraltro, fresco di nomina, non c’entra- è rimasto sconvolto dall’iniziativa. O perché abituati alle proteste pressocchè quotidiane, o perché i tre “poveri Cristi” non hanno suscitato alcuna attenzione o, meglio, alcuna emozione. Nessuno è rimasto sconvolto, neanche a vederli in tuta bianca a strisce verticali nere e per di più con una catena al collo. Nessuno li ha ricevuti o ha potuto-voluto ascoltare le loro lamentele, le loro richieste. Non ha commosso nessuno finanche una cassa da morto che i tre disoccupati hanno portato con loro, con tanto di fiori e di lumini accesi. “Siamo alla disperazione”, hanno gridato, aggiungendo, per iscritto e a parole “Non ci suicidiamo perché siamo già morti”: Eh, già! C’è qualcosa di più triste di quanto hanno sostenuto? Da qui il “dies irae, il calamitatis et miseriae”! A dire il vero, qualcuno ha fatto qualcosa. Uno sforzo “Andate alla Caritas e fatevi dare il pranzo o un pacco di riso”! Come se fosse necessario inscenare quel po’-po’ di protesta per avere questo tipo di suggerimento! E si tratta di tre disoccupati che vivono l’incubo della disperazione. Sono consapevoli di non essere i soli a “vivere” questo dramma del “lavoro che non c’è”, ma, come gli altri, si disperano, increduli, che non ci sia nulla da fare, a livello politico, a livello sindacale, industriale, civile. Eppure è così, in Calabria, come e più che altrove. Chiedono lavoro, ma anche la restituzione alla dignità di uomini. Sottovoce qualcuno ha finanche detto che sarebbe facile guadagnare consegnandosi alla delinquenza o spacciando droga. “No! Questo no! Meglio la fame, o forse rubacchiare di qua e di là per non morire di stenti, chiedere l’elemosina, andare dai nostri sacerdoti, gli unici che, non a parole, ci sono vicini”! E a Rende? Qualcuno ha minacciato di darsi fuoco, agitando una bottiglia d’alcool: le forze dell’ordine- anche questo, in periodo di magra diventa compito d’istituto- sono riuscite a far desistere l’uomo che accredita numerosi salari da un’azienda semipubblica. E non è il solo. Con lui, vivono il dramma della mancanza della retribuzione decine di altri lavoratori che hanno esaurito la lista dei Santi a cui votarsi. E attendono che si concludano le diatribe che vedono coinvolti e contrapposti enti pubblici -Regione, Province, comuni- e società private. Ognuno sostiene di aver fatto la propria parte. È un fatto, però, che città e piccoli Comuni sono invase dai rifiuti e i lavoratori non vengono pagati. Qualcosa nel meccanismo non funziona, qualcuno sarà responsabile, se questi lavoratori, o ex-presunti lavoratori vanno agli oratori, si rivolgono alle mense sociali, a don Mimmo Battaglia a Catanzaro, a don Pino Demasi a Polistena, don Giacomo Panizza e don Giancarlo Leone a Lamezia, don Ennio Stamile a Cetraro, i seguaci di don Francesco Mottola a Tropea, don Ezio Limina di Crotone e tanti, davvero tanti altri, tra diaconi e vocati agli altri, che compiono quotidianamente, come don Andrea Gallo, il prete degli ultimi, un’azione silenziosa e meritoria che conoscono in pochi. E solo chi vive nell’indigenza. E, come sempre, l’allarme lo deve e suonare la Chiesa che, attraverso la Conferenza episcopale, non ha dimostrato grande fiducia in un futuro più roseo per il Mezzogiorno. Lanciando l’allarme lavoro, i vescovi italiani si son detti del parere che i principali indicatori, in materia di lavoro e di occupazione, vedono le regioni del profondo Sud in una posizione di ritardo e di grave difficoltà rispetto al resto d’Europa. Senza peli sulla lingua, ai tempi di Papa Francesco, anche i Vescovi non tacciono, ove mai l’abbiano fatto. Solo che, incoraggiati dal Papa venuto da lontano, si sono sentiti spinti e incoraggiati a protestare, gridare e fare. Quel che è possibile, quel che si può. Ecco che il loro appello agli uomini di buona volontà non può rimanere inascoltato, passare come acqua fresca su chi lo ascolta! Scriveva, don Vincenzo Filice, sul periodico del centro socio-culturale “Vittorio Bachelet” di Cosenza che l’uomo di oggi, come Sisifo, dopo aver fatto ogni sforzo sovrumano per raggiungere la vetta del benessere, si ritrova “con la paura di non farcela più. È rinchiuso nell’inquietudine e nell’angoscia di un futuro sfuggente e minaccioso: disoccupazione crescente, povertà dilagante, arroganza del potere”. Non gli si può dare torto -e come si potrebbe- perché tocca il tasto dolente della povertà dilagante, del dramma dei “poveri Cristi” che, se non cantano, ricordano il “Libera me Domine” e chiedono un tozzo di pane. Non ci curiamo: si legge la notizia sul giornale si, dice, al massimo, “poveretti” e poi va avanti pensando ai fatti propri. Non c’è interesse per il prossimo. C’è solo il proprio egoismo. Scriveva Schopenhauer che “l’egoismo ispira un tale orrore che abbiamo inventato le belle maniere per nasconderlo, ma traspare attraverso tutti i veli e si tradisce in ogni occasione”. È proprio così: l’egoista si riconosce anche guardandolo negli occhi!
* Giornalista
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