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Brutte figure comuni

La Corte Costituzionale ha recentemente emesso un’accorta sentenza (n. 138 del 13 giugno 2013) che assumerà un’importante ricaduta, oltre che sugli obblighi contabili delle Regioni, anche in quelli…

Pubblicato il: 31/07/2013 – 18:15
Brutte figure comuni

La Corte Costituzionale ha recentemente emesso un’accorta sentenza (n. 138 del 13 giugno 2013) che assumerà un’importante ricaduta, oltre che sugli obblighi contabili delle Regioni, anche in quelli degli enti locali. Ciò nel senso di imporre agli stessi una maggiore accortezza nella determinazione dei residui attivi da conservare nei loro bilanci. Un limite riconosciuto dallo stesso legislatore – tant’è che ne ha sancito la revisione straordinaria agli enti locali che ricorrano al cosiddetto predissesto – ma anche emerso dai piani di riequilibrio in circolazione che hanno registrato insussistenze miliardarie. La sentenza ha riguardato la Regione Molise, in relazione a quanto formulato nella sua legge n. 23/2012 sul rendiconto regionale 2011. La Corte è stata chiamata ad esaminare e decidere anche in relazione alla correttezza della contabilizzazione dei residui. Lo ha fatto in rapporto ai principi fondamentali e alle norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle Regioni fissati nel d.lgs. n. 76/2000 che sanciscono l’obbligo di giustificare, annualmente, il mantenimento dei residui. Un obbligo coincidente con quello imposto a Comuni e Province dal Tuel. Nello stesso, nell’art. 228, comma 3, è prescritto che nel percorso (obbligatorio) di riaccertamento annuale dei residui (attivi e passivi) debbano essere individuate ed esposte le ragioni di mantenimento dei residui. Una norma di tutela che, se rispettata, avrebbe evitato al sistema autonomostico locale di inquinare i propri conti e di conservarli così per anni, lasciando conseguentemente apparire ciò che non si è. Tali residui attivi, da stralciare per eccesso, a mente del principio generale ribadito dalla Consulta, assumono valori miliardari nel loro complesso. In quanto tali avrebbero dovuto essere esaminati ed eliminati con l’adozione di adeguate determine dirigenziali, ampiamente motivate. Un dovere spesso disatteso per come si ha modo di constatare dai numeri dei piani di rientro. Invero, è risultato  ricorrente un uso distorto di siffatti provvedimenti. Si è così provveduto, quasi ovunque, a conservare senza una adeguata motivazione tanti residui da inquinare i saldi di bilancio. In proposito, la Corte ha affermato la incidenza negativa che ha il mancato riaccertamento annuale dei residui, dal momento che da esso dipende una grave alterazione della contabilità pubblica. La cattiva pratica assunta in tal senso è da ritenersi, pertanto, alla stregua di un vero artificio, cui si ricorre per “truccare” l’esito dei conti, contrapposto al principio della previa dimostrazione analitica dei crediti computabili ai fini dell’avanzo/disavanzo di amministrazione. Un “principio risalente” nell’ordinamento in ragione della sua stretta inerenza ai concetti di certezza e attendibilità che devono caratterizzare le risultanze della gestione economica e finanziaria. Una conclusione che ha portato ad affermare che “la definizione dei residui attivi come somme accertate e non riscosse ha un implicito valore deontologico cogente, nel senso che il legislatore ha voluto che del conto consuntivo possano entrare a far parte solo somme accertate e non presunte”. Così come d’altronde si evince dalla lettera dell’art. 162 Tuel. Di conseguenza, sono in tantissimi i Comuni calabresi ad essere diventati vittima di loro stessi. Siffatti artifizi  sono stati di casa quasi ovunque, se è vero come è vero che è dato rintracciare ovunque residui appostati con leggerezza che, con altrettanta leggerezza, vengono conservati in bilancio allo scopo di evitare quelle “brutte figure” che, di contro, gli amministratori di sempre meriterebbero. Molti di questi Comuni sono pertanto ricorsi alla procedura di cosiddetto predissesto o antidefault, a secondo se a definirla sia, rispettivamente, un pessimista oppure un ottimista. I risultati non dovrebbero essere entusiasmanti per le amministrazioni aspiranti, fatta eccezione per quelli che vi hanno aderito con saggezza, senso autocritico e professionalità. Ma soprattutto con l’impegno di ripartire da capo, ma con la dovute accortezze gestionali. Per un altro verso, sono stati in tanti i Comuni ad essere stati dissestati di ufficio dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti. Tra questi Vibo Valentia (delibera 21/2013), che si è tuttavia reso protagonista, al riguardo, di una azione giudiziaria avanti al Tar e vittima di un epilogo non certamente esaltante. I fatti. Il capoluogo calabrese si è visto “dichiarare” il proprio dissesto in quanto non aveva provveduto ad approvare (nel termine perentorio dei 60 giorni disponibili) il cosiddetto piano di rientro relativo alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, cui aveva precedentemente aderito, con delibera del Consiglio comunale, per risolvere la gravissima situazione di deficit finanziario vissuta dalla cassa municipale. La conseguente nota prefettizia di invito alla puntuale adozione della relativa procedura amministrativa, finalizzata al perfezionamento del dissesto, è stata impugnata avanti al Tar calabrese che, pedissequamente a quanto già deciso dall’omologo siciliano per il Comune di Cefalù, ha in un primo momento ordinato, con provvedimento presidenziale interinale, la sospensiva della nota del Prefetto de qua (decreto presidenziale n. 229 del 17 maggio 2013), salvo correggersi successivamente. Il Giudice amministrativo, infatti, in sede di Camera di Consiglio (tenutasi il 20 giugno 2013), non ha ritenuto di accogliere le richieste cautelari dell’amministrazione vibonese confermando, di guisa, il dissesto cosiddetto guidato, così come deliberato dalla Corte dei Conti di Catanzaro.

* Docente Unical

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