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A Scilla c`è chi dice no

Ci sono le rivelazioni un imprenditore, cui le giovani leve del clan avevano tentato di estorcere denaro per i parenti detenuti, dietro l’indagine che ha portato al fermo di Domenico Nasone, il ram…

Pubblicato il: 23/10/2013 – 16:42
A Scilla c`è chi dice no

Ci sono le rivelazioni un imprenditore, cui le giovani leve del clan avevano tentato di estorcere denaro per i parenti detenuti, dietro l’indagine che ha portato al fermo di Domenico Nasone, il rampollo dell’omonima famiglia che fino a non più di  un anno fa teneva sotto scacco Scilla. Nonostante il fermo a suo carico non sia stato convalidato dal gip – che non ha ravvisato il pericolo di fuga su cui era basato il provvedimento –  si tratta di un colpo importante nella strategia investigativa che in poco meno di un anno ha spazzato via la colonna vertebrale del clan che aveva imposto il suo asfissiante dominio tanto sull’economia di Scilla, come sui maxi appalti della Salerno-Reggio Calabria. A consegnare Nasone agli inquirenti sono state infatti le rivelazioni di un imprenditore della zona, stanco delle continue minacce del clan, ma a convincerlo a rompere il silenzio è stata anche – se non soprattutto – l’ostinata azione della Dda.
Il 2 luglio 2013 l’uomo  si presenta dai carabinieri. Non è una giornata come le altre a Scilla. All’alba, le forze dell’ordine hanno stretto le manette ai polsi ai picciotti dei Nasone Gaietti rimasti – fino ad allora – fuori. Tra loro c’è anche Angelo Carina, cugino di primo grado dei fratelli Nasone e uomo di fiducia del clan. A Scilla i nomi dei componenti del clan sono noti, per anni hanno messo la firma su attentati e danneggiamenti, e anche per l’imprenditore Carina non è uno sconosciuto. Si tratta infatti dello stesso soggetto che cinque o sei mesi prima lo aveva bruscamente fermato per chiedergli «come sei rimasto d’accordo con i miei cugini?».
Un episodio che sarà lo stesso imprenditore a raccontare agli inquirenti quando Carina finisce in manette. «Da subito ho capito che si riferiva ad eventuali accordi illeciti con i cugini che erano stati tratti in arresto e quindi gli ho risposto negativamente, facendogli capire che a me non interessavano accordi di questo tipo». La richiesta di Carina è dunque un salto di qualità nei suoi rapporti obbligati con il clan.  Ma quella non sarà per l’uomo l’ultima intimidazione. Qualche mese dopo infatti sarà proprio quel Domenico Nasone che con le sue rivelazioni contribuirà ad incastrare, a bloccarlo. «Con mio sommo stupore – dice l’imprenditore agli investigatori – mi riferì le seguenti parole: “Senti, siccome avete lavorato là sotto, che avete fatto quel fabbricato, non c’è niente per noi?”».
Figlio di Virgilio Giuseppe Nasone e fratello di Francesco, entrambi condannati il 9 ottobre scorso rispettivamente a 16 e 18 anni di reclusione perché considerati i vertici del clan Nasone-Gaietti, Domenico – stando alle indagini della Dda – nonostante gli arresti avessero sfoltito i ranghi del clan, era  deciso a continuare “l’attività di famiglia”. Anzi l’arresto di genitori, fratelli e cugini forse aveva reso l’esigenza ancora più impellente. «Fece un cenno – racconta l’imprenditore agli inquirenti – facendo capire che questi soldi sarebbero serviti al sostentamento dei parenti detenuti». Una richiesta che infastidisce l’uomo, che però cerca di tenere i nervi saldi. «Temendo quindi che una mia reazione troppo accesa potesse poi provocare qualche incendio successivo ai miei mezzi, ho cercato di declinare la richiesta facendo capire che la ditta non versava in buone condizioni economiche».
La risposta del clan non si farà attendere e sarà lo stesso imprenditore a metterla in relazione con le intimidazioni subìte in precedenza. La sera del 13 giugno, tornando a casa con la famiglia «all’imbocco della stradina che dalla via Provinciale porta verso la mia abitazione, su un muretto – mette a verbale di fronte ai carabinieri – ho notato una bottiglia con del nastro isolante intorno». Quasi un marchio di fabbrica del clan per il pm Rosario Ferracane, che con il coordinamento dell’aggiunto Michele Prestipino, ha inaugurato il fortunato filone di indagine. «La tipologia e le modalità di commissione della condotta delittuosa in esame, – scrive infatti il sostituto della Dda nel fermo a carico di Nasone – oltre a risultare prive di lati oscuri o di coni d’ombra, si pongono con ogni evidenza sulla medesima lunghezza d’onda della vicenda estorsiva per la quale il 2 luglio 2013 il Carina Angelo era stato tratto in arresto».
E forse è proprio grazie a tale provvedimento che l’imprenditore vessato dal clan, quello stesso giorno trova il coraggio per presentarsi dai carabinieri e  raccontare tutto quello che la notte del 13 giugno aveva nascosto. «Una scelta coraggiosa» per gli inquirenti, dettata dalla «volontà di non cedere alle pressioni mafiose e di sottrarsi al pagamento del pizzo» che per sua stessa ammissione per anni è stato costretto a versare, pur consapevole della «caratura criminale dei soggetti coinvolti». Soggetti per cui taglieggiamenti ed estorsioni sono attività tradizionale e consolidata. A rivelarlo è uno degli uomini del clan, Giuseppe Fulco, ascoltato e registrato dagli inquirenti nel corso di un colloquio in carcere. E alla donna che gli rimprovera un atteggiamento avventato risponde:  «È quello che si è sempre fatto. Solo che qualcosa non è quadrata (…) qualcosa non è quadrata o quello non andava a fare la denuncia”». (0080)

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