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OPERAZIONE ERINNI | La talpa e gli stratagemmi per non essere intercettati

REGGIO CALABRIA «Come è fin troppo evidente, Mazzagatti Rocco e Scarfone Domenico dispongono di informazioni troppo precise sulle indagini in corso e si mostrano sicuri di poterle periodicamente ag…

Pubblicato il: 26/11/2013 – 20:42
OPERAZIONE ERINNI | La talpa e gli stratagemmi per non essere intercettati

REGGIO CALABRIA «Come è fin troppo evidente, Mazzagatti Rocco e Scarfone Domenico dispongono di informazioni troppo precise sulle indagini in corso e si mostrano sicuri di poterle periodicamente aggiornare, circostanza che lascia chiaramente intendere che, come purtroppo accade ormai sempre più spesso, possono evidentemente fare affidamento su una “talpa” all`interno di ambienti istituzionali». Sono gli stessi inquirenti, in un passaggio del fermo, a denunciare che per l’ennesima volta i clan sembrano godere di appoggi e contatti all’interno di quelle strutture che dovrebbero combatterli. Un motivo per accelerare le indagini e procedere ai fermi dei venti indagati dell’operazione “Erinni”, nella speranza di una successiva convalida da parte del gip. Ma soprattutto, lo spunto per un nuovo fronte di indagine tutto interno alle istituzioni, per capire chi continua ad aiutare i clan. A svelare l’esistenza di insospettabili “amici” – allo stato ancora senza nome – sono gli stessi indagati che, nelle conversazioni intercettate, non fanno mistero di essere venuti a conoscenza delle indagini a proprio carico. Il primo a essere al corrente dell’esistenza di un’attività di intercettazione in corso era il presunto capo della locale di Oppido, Rocco Mazzagatti, che chiacchierando con Domenico Scarfone, presunta mente imprenditoriale dell’organizzazione di stanza a Roma, gli raccomanda: «E ho parlato con gli avvocati dato che mi hai aggiornato che ti hanno chiamato e ti hanno domandato di me, eh! è da una vita che ci conosciamo e quindi dobbiamo stare come siamo stati sempre, normali tranquilli come se tutto… normali tranquilli come sempre sentiti come ci siamo sempre visti e tutto il resto». Dopo gli omicidi, i due – farebbe intendere Mazzagatti – non devono modificare le proprie abitudini telefoniche ma solo prestare sempre massima attenzione al contenuto delle conversazioni. Ma questa non è l’unica informazione che verrà riferita agli uomini del clan. Da una successiva conversazione ambientale, gli investigatori apprenderanno infatti che Scarfone era stato informato – e con massima precisione – delle indagini mirate alla cattura del latitante Domenico Polimeni. L’indagine – informa l’amico e sodale Rocco Mazzagatti – «è partita un anno e mezzo fa no un anno e otto mesi fa». Allo stesso modo, è con estrema nonchalance che il presunto boss informava l’amico di essere cosciente di essere intercettato, perché coinvolto nelle indagini riguardanti il cognato e il nipote, Francesco e Alessandro Rocco Ruffa. «Tutti, ce l`ho io, tutti ce l’abbiamo, e allora io non ne ho nessuno? Queste sono cose scontate… poi se vuoi fargli una bonifica… immediata… vai dove sono entrati e smontagli le prese… le prese li smonti e vedi se c`è una cosa dentro, perché li mettono o nelle prese o quelle che dura dieci giorni e la mettono dentro qualche posto», commenta esperto il boss, che evidentemente una bonifica deve averla fatta fare se con sicurezza afferma: «Ma nella casa non la mettono… all’interno delle attività… fino ad ora non l’hanno fatta da noi nella casa, nell’ufficio l’hanno messa, dove sanno che tu… parli, capito?». Informazioni che – rivela Mazzagatti – spesso arrivano anche dai legali: «Ieri… avantieri mi chiama l`avvocato, l`avvocato dice: “ieri ti ho chiamato, lo sapete no? che avete il telefono sotto controllo?”. “Ed io da ora è che lo so avvocato” chiaro me lo dice per telefono, lui sa perché me lo dice, io neanche gli rispondo infatti faccio parlare lui per telefono che lui certe volte parla in modo che lui sa quello che dice».
Ma Scarfone e Mazzagatti non sono gli unici ad essere coscienti delle attenzioni investigative di cui sono oggetto. Anche il presunto giovane killer Simone Pepe ne è perfettamente consapevole. Chiacchierando con la compagna, è infatti quasi con orgoglio che riferisce di aver saputo da Paolo Polimeni di sapere di essere considerato dagli investigatori un soggetto «ad alto rischio mafioso». «Ce li abbiamo tutti controllati i telefoni… e no che sei matta? – registrerà la cimice ambientale in quell’occasione –. Che sto da Federica… da Federica… Aprilia più lontano possibile». E gli uomini del clan, ormai coscienti dell’importanza delle intercettazioni come tecnica di indagine, hanno anche imparato a utilizzarle a proprio favore, come strumento di depistaggio. Farà questo Rocco Mazzagatti, lasciando il proprio telefono a Catanzaro proprio nei giorni in cui si erano verificati gli omicidi di componenti della cosca Ferraro-Raccosta a Oppido, dove era prontamente accorso su richiesta del nipote Leone Rustico. Stesso trucco utilizzato dal presunto giovane killer Simone Pepe, la notte tra l’8 e il 9 maggio 2012, quando senza informare nessuno della sua partenza, accompagnato dal cugino Pepe Valerio tornerà in Calabria, ad Oppido Mamertina, per uccidere Vincenzo Raccosta, lasciando intenzionalmente il suo cellulare acceso a Roma per simulare la sua presenza nella Capitale. A rivelare che, nonostante il suo telefono fosse sempre rimasto a Roma, Simone Pepe sia andato in Calabria il giorno precedente l’assassinio di Vincenzo Raccosta assieme al cugino Valerio e sia tornato nel Lazio subito dopo, sono le telefonate fra la madre, Laura Pepe, e lo zio Fabio, ma soprattutto l’ingegnoso sistema architettato per contattare la donna preoccupata. «In buona sostanza – spiegano gli inquirenti nel fermo – attraverso due apparecchi telefonici nella disponibilità di Valerio Pepe (su cui intercorrevano due distinte telefonate con la zia e Pepe Simone), venivano accostati, madre e figlio, attraverso il sistema del vivavoce, e dialogavano tra loro. Ciò perché si trovava ad Oppido Mamertina, dopo essere stato accompagnato dal cugino Valerio che però era subito dopo rientrato a Roma». Ma a fornire agli investigatori la certezza dei suoi spostamenti, nonostante il telefono fosse stato lasciato volutamente a Roma nel tentativo di eludere le indagini, è lo stesso Pepe Simone chiacchierando con tale Francesca il giorno successivo all’omicidio di Vincenzo Raccosta, durante il quale, goffamente, spiega: «E non è uno non va per paura… perché ha il resto… ma adesso l’ho occupato infatti non è che non ci passo davanti perché mi spavento o che cosa… solamente che non posso scendere ad Oppido e no che non posso scendere per paura… perché sinceramente alla vita mia ci tengo… ah morire si muore una volta non ti parere che si muore due… come calai avantieri posso calare pure domani non è che succede qualcosa se scendo un’altra volta». (0050)

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