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OPERAZIONE ERINNI | Il ritratto del giovane boss

Ha poco più di vent’anni ma è già un killer e un capo. Ha chiesto e ottenuto il permesso di uccidere di lavare nel sangue l’omicidio del patrigno, Domenico Bonarrigo, ha in mano un traffico di armi…

Pubblicato il: 27/11/2013 – 8:42
OPERAZIONE ERINNI | Il ritratto del giovane boss

Ha poco più di vent’anni ma è già un killer e un capo. Ha chiesto e ottenuto il permesso di uccidere di lavare nel sangue l’omicidio del patrigno, Domenico Bonarrigo, ha in mano un traffico di armi e di droga nella Capitale ma è anche un ragazzino, che per spiegare all’amico romano le logiche della vendetta fa riferimento a una nota serie televisiva. È questo il ritratto di Simone Pepe che emerge dall’operazione Erinni, l’indagine della Dda di Reggio Calabria che oggi ha portato al fermi di venti fra  capi e gregari dei clan Mazzagatti-Polimeni-Bonarrigo e Ferraro-Raccosta. Un’indagine in cui sono confluite le dettagliatissime conversazioni fra Simone Pepe e Matteo Scarfoni, piccolo criminale romano cui il giovane killer ha raccontato nel tempo la sua vita, i suoi crimini e i segreti dell’organizzazione a cui appartiene.  Una straordinaria acquisizione investigativa per gli inquirenti perché «proprio la circostanza fattuale che le conversazioni siano avvenute in un contesto diverso da Oppido ed il dato che i dialoghi avvenissero con persone non ‘ndraghetiste hanno contribuito a rendere più fluide le conversazioni medesime, nonché “obbligato” a maggiore chiarezza e specificazioni Pepe Simone nel corso dei suoi innumerevoli racconti all’amico Scarponi Matteo».

LA `NDRANGHETA SPIEGATA ALL`AMICO
Con lui, il giovane killer parte dall’abc delle `ndrine: «La cosca lo sai che è? La cosca è tipo una banda…una batteria, una batteria, quelli che eravamo noi, e c`era il figlio… Oh, le batterie che stavano a Roma una volta, tipo cinque sei persone che fanno gli impicci insieme». Ed è preciso anche sui requisiti necessari per ambire ad entrare nella cosca: «Per entrare.. e un tit…per avere un titolo mafioso devi essere pulito e candido, cioè non ci devi avere precedenti! E cazzate varie…e non devi essere cornuto…che tua moglie se la fa con un altro».
Per essere `ndranghetisti – spiega – bisogna dunque essere “acerbi dentro”, per poter essere plasmati attraverso l’ideologia mafiosa, seri perché in grado di mantenere un segreto e svelti a ricorrere alla violenza. Racconti da uomo di mafia, da trafficante, da killer spietato che racconta di omicidi con la stessa leggerezza con cui un suo coetaneo parlerebbe di un videogame.

INFANZIA CRIMINALE
Eppure Simone Pepe non nasce figlio di `ndrangheta. Con le `ndrine entra in contatto quando la madre Laura si lega a Domenico Bonarrigo, elemento di spicco del locale di Oppido, trasferitosi a Roma per sfuggire alla faida degli anni Novanta. Per Simone, Bonarrigo sarà un padre ma soprattutto un mentore nella galassia delle `ndrine. Sotto la sua ala, si farà strada nell’organizzazione, a partire dai gradi più bassi. «Quando entri dentro ad una certa organizzazione e sei il più piccolo se devi andare a pisciare devi chiedere il permesso di andare a pisciare! Quando tutti i grandi parlano, io facevo lo schiavo……quando arrivava la gente di fuori paese lo sai quale era la regola mia? Eh? Muto! Io stavo in mezzo alla gente che faceva discorsi per due ore! Seduti ad una sedia che discutevano che..chi doveva prendere i soldi a destra, perché quello doveva fare quello perché quello..no io stavo in mezzo a tutti sulla sedia così, muto, zitto no che potevo pigliare il telefono giù o andare a fumarmi la sigaretta, ma che scherzi?…Matteo! arrivavano i pranzi? Matteo dopo che parlavano due o tre ore dalle nove di mattina fino all’una! Io gli ho apparecchiato il tavolo ai peggio ubriaconi ..perchè c’avevano il titolo mafioso..gli facevo a mio padre “io non ci voglio venire là, io lo schiavo non lo voglio fare a nessuno! Lo sai come mi rispondeva lui? “servi che sarai servito!».
Compiti esecutivi che non si limitavano alla Calabria «io andavo a Milano, io partivo a Milano, partivo la mattina con l’aereo, partivo alle sette, alle nove stavo a Milano – racconta sempre all’amico – mi venivano a prendere gente di giù che stava a Milano, andavo a parlare con chi dovevo parlare, che mio padre mi diceva “vai li ci devi parlare tu” io andavo a parlare per parola di mio padre e di Rocco, ci andavo io a parlare, a venti anni, a venti anni».

LA SCELTA
Ma non sarà il sangue a dettare la sua affiliazione ma una scelta. «Mattè non l’ho voluto, non è che sono stato obbligato, a me mi hanno messo davanti ad un bivio…e mi hanno detto “Simò tu stai qua, oggi stai qua, domani può essere che non ci stai più, qua stiamo tutti su una barca..sta barca non si lascia manco se sta per affondare, se affonda la barca tu devi affondare con la barca, la barca non si deve lasciare». E Simone consapevolmente sceglie la `ndrangheta. Sa di essere diverso. Comprende i rischi che corre: «Tu sei diverso da me, ma tu sei diverso da me, sai perché? Mò ti rispondo subito a quello.. no di principi diversi, mò ti rispondo subito..no aspetta, no di principi, no di principi aspetta no i principi! Lo sai perché..no è la situazione Matteo perché domani mattina tu ti alzi e te ne vai a giocare al picchetto, a me può essere che domani mattina vengono a bussare le guardie a casa e mi accollano cinque omicidi, Matteo io dal carcere non esco più! A mio figlio l’ho visto un mese».

IL GIOVANE CAPO
Ma a Simone Pepe non importa. Ha scelto consapevolmente la `ndrangheta. E non riesce a nascondere l’orgoglio quando racconta all’amico Matteo che dopo la morte del patrigno è a lui che tocca ricoprirne il ruolo. «Quando è morto Mimmo, la sera stessa mi hanno fatto…eee…il rituale per darmi i dieci fiori per farmi diventare “don”, capito? Perché poi c’è don e padrino capito come? però io padrino non ci potevo diventare……….. io adesso come adesso sono capobastone».
Un ruolo confermato anche da altri sodali come Giuseppe Mazzagatti, che – racconta il giovane killer all’amico – dopo l’omicidio del patrigno gli avrebbe detto: «Simò tu sei come mio fratello, Mimmo era come mio padre, la famiglia mia è la famiglia nostra, punto, mi fa: “adesso l`unica cosa che devi fare è andare da tua madre, devi avere questa forza perchè adesso l`uomo sei tu, Mimmo lo sai chi era, Mimmo sai che era un capo e adesso diventi tu al posto di Mimmo, perchè Mimmo ti ha portato avanti te, i tuoi fratelli sono piccoli, adesso ci sei tu”, sappi che io adesso se prima….Mi ha detto, lo sai che mi ha detto? “prima vedevamo Mimmo, adesso vediamo a te come se vedessimo Mimmo, ricordati queste parole, mi fa: “Simò, non sbagliare più, non puoi sbagliare adesso, indietro non si può più tornare».
Simone lo sa, il suo è solo un ruolo temporaneo. Quando avrà l’età adeguata, sarà il fratellastro Alessandro a prendere il suo posto, lui stesso ne è cosciente. «Io mi sto tenendo questo posto solo per un motivo perché se Vincenzo cresce se lo deve prendere lui, se lui non lo vuole se lo prenderà Alessandro, se Alessandro non lo vuole va a morire tutto ed è finito tutto, noi, io personalmente fino a che muoio sarò presente con loro però Oppido diventa solo loro non mia, capito che ti voglio dire? Oggi comando fino a che i miei fratelli non finiscono».  

LA VENDETTA
Ma quale capo Simone Pepe chiede e ottiene vendetta. Poco più che ventenne, pretende la morte di chi ha deciso e concretamente provocato la morte del patrigno. È feroce con chi come Francesco Bonarrigo cerca di coprire gli autori di quell’omicidio anche se si tratta di parenti del patrigno. «Gli ho detto queste parole – racconta sempre all’amico – gli ho detto “forse non hai capito, venti anni fa te ne sei andato, oggi dopo venti anni te ne puoi andare perché tu a me non servi, anzi sappi una cosa che se a me mi capiti sotto tiro mentre sto ammazzando quello li ammazzo te e chi c’è con lui, compreso, compresi i loro..loro tre, e quegli altri quattro erano quattro gli ubriaconi” io stavo parlando con uno di loro e gli ho detto anche a quegli altri tre che ammazzavo pure a loro…gli ho fatto, gli ho det
to queste parole “non ti azzardare a dire che Bonarrigo tè sei uguale a Bonarrigo me, perché Bonarrigo te non vali un cazzo, Bonarrigo me vale e pesa”».
Solo quando avrà la sua vendetta, Simone Pepe troverà pace. «Già l’ho fatta la strage, i quattro che mi interessavano…no io quegli altri non li posso toccare perché quelli sono quelli che mi hanno aiutato ad ammazzare chi ha ammazzato mio padre», dice all’amico per spiegare quella vendetta concordata anche con la cosca avversaria, che ha accettato il sacrificio dei quattro che avevano osato minacciare gli equilibri fra clan così a fatica raggiunti. Una vendetta cercata e perpetrata con furia e ferocia. È infatti con cinismo quasi inconcepibile che Simone Pepe racconta con che determinazione abbia sparato «altezza collo, sparavo altezza collo perché sapevo…arrivando io a pallettoni lo prendevo sia in faccia che sul petto… non… io non volevo farlo riconoscere, ho detto non lo deve neanche .. io ho detto…io ho detto non voglio farlo piangere da nessuno», o con che soddisfazione abbia dato in pasto una delle vittime, ancora agonizzante, ai maiali, dopo averla massacrata lentamente. «L’ho preso a botte di pala dappertutto, e la lui…lui era già mezzo morto… perché io lo vedo, calcola era diventato nero in faccia, in faccia già era nero, appena ha preso le prime tre quattro botte di pala…è stata una sensazione no bella, di più».
Un uomo, Francesco Raccosta, cui aveva voluto mostrare il proprio volto durante il supplizio, quasi a siglare ufficialmente quella condanna a morte ma anche per avere la possibilità di leggere nelle vittime. Per i magistrati quello di Simone Pepe «è il racconto soddisfatto di chi ha trovato soddisfazione nell’ammazzare, convinto di aver agito nel giusto. E per questo più terribile». È il racconto di un assassino ma è anche il racconto di chi ha già ucciso o ha almeno visto uccidere. È lui stesso infatti a confessare di aver visto morire gente, bruciata viva: «Il fuoco è più brutto della pistola..io ho visto..ho visto gente completamente bruciata…ho visto gente morire bruciata Mattè».
Ma soprattutto, è un killer disposto a uccidere ancora, anche per fare un favore. All’amico Matteo, che gli confessa i propositi omicidi del padre, dice infatti: «No se gli serve il lavoro cosi, che deve andare ad ammazzare a uno, me lo dice, ci vado io!, perché si deve rischiare la galera lui».

I TRAFFICI NELLA CAPITALE
Con la stessa nonchalance, il giovane Pepe da ordini ai giovani che gli gravitano attorno – Domenico Lentini, Francesco Mazzagatti e Carmine Murdica che vivono in Calabria, nonché dei cugini Pepe che vivono a Roma – e con naturalezza ha assunto il ruolo di anello di raccordo tra i giovani ‘ndranghetisti di Oppido e quelli operanti a Roma con i capi della locale. E nella Capitale, nel giro di poco è riuscito ad affermarsi nel mondo della droga. Non in quello del piccolo spaccio. Ma dei grandi traffici. All’amica Veronica confesserà infatti un grosso traffico organizzato con i cugini Luca Pepe prima, e Valerio Pepe.
«Appena arrivato qua – le racconta – gli ho fatto vedere i soldi io a Valerio. Vabbè, comunque… ti stavo dicendo comunque. Con Luca, sai quale era il lavoro nostro, noi non vendevamo i pezzi … noi vendevamo i chili!». Traffici organizzati grazie all’ausilio reciproco, offerto e ricevuto, da altri spacciatori calabresi che da tempo operavano nella capitale. Amici per Simone Pepe, «amici a Piazza Bologna, Re di Roma, non so se li conosci. Sono tutti calabresi! Sono di San Luca, di Platì e via dicendo… e sono tutti fratellini miei … Cioè fratelli, nel senso che… se a me mi serve una cosa, tipo… mi serve un alibi, per dirti …loro me lo danno… come se se gli serve a loro, io glielo do! eh prendevamo i chili lo sai come ci portavamo la merce noi? ma li si parla che ci …inc… intorno ai venti chili di merce al giorno, non tutti i giorni, ma un giorno si e l`altro pure, capito che ti voglio dire?».
Di sicuro, lo hanno capito gli inquirenti che oggi contro di lui hanno collezionato un compendio probatorio pesantissimo. Anche questo da giovane capo. (0080)

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