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Le macchinette "svuota-tasche" di Gioacchino Campolo

REGGIO CALABRIA In apparenza si trattava solo di innocenti videogiochi. Uguali in tutto e per tutto a quelli diffusi in ogni sala d’Italia e del mondo. Ma, a richiesta, le “macchinette” della ditta…

Pubblicato il: 03/12/2013 – 21:37
Le macchinette "svuota-tasche" di Gioacchino Campolo

REGGIO CALABRIA In apparenza si trattava solo di innocenti videogiochi. Uguali in tutto e per tutto a quelli diffusi in ogni sala d’Italia e del mondo. Ma, a richiesta, le “macchinette” della ditta Are si trasformavano in slot mangiasoldi, totalmente sconosciute al Monopolio e allo Stato, assolutamente illegali, capaci nel giro di mezz’ora di fagocitare centinaia e centinaia di euro. Ovviamente esentasse.
È questo il sistema grazie a cui l’imprenditore Gioacchino Campolo – già condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per estorsione – avrebbe costruito parte della propria fortuna. Un sistema che oggi, di fronte al Tribunale presieduto dal giudice Natina Praticò, è stato ricostruito in dettaglio da una delle “vittime”, Franco Livoti, per “due o tre anni” giocatore accanito, così come da Antonello Telli, uno dei gestori delle tante sale giochi riconducibili a Campolo.
“A volte – confessa a malincuore Livoti – sono arrivato a perdere 500-600 euro nell’arco di un’ora, un’ora e mezza”. Cifre importanti, che le macchinette mangiavano con rapidità e regolarità impressionante, svuotando le tasche e le vite dei tanti ludopati che frequentavano l’Orchidea o il Trocadero, due sale giochi riconducibili a Campolo. “Io ci andavo tre–quattro volte alla settimana e ci stavo due o tre ore ma non giocavo sempre”, racconta, quasi con vergogna, Livoti, che ricorda che “i gettoni valevano 50 centesimi, ma valevano 10 punti e nel corso di una giocata si poteva arrivare a 45 punti, quindi nel corso di una giocata ne andavano via diversi. Riuscivo a far sparire una stecca da 25 euro in cinque, sei minuti”. Gettoni che – spiega – si ritiravano dal responsabile di sala, come confermato anche da Lemmi, per oltre 13 anni impiegato prima all’Orchidea, quindi al Trocadero. Lo stesso soggetto cui gli avventori si rivolgevano “le poche, pochissime volte che capitava una vincita”, riferisce Livoti, che nei suoi anni di frequentazione della sala giochi “avrò vinto una, massimo due volte, cifre significative. Mille, milletrecento euro. La persona che lavorava in sala veniva a controllare la macchina e mi pagava”. Ed è proprio su questo punto che le testimonianza del giocatore e del responsabile di sala divergono. Per Lemmi, erano infatti “i tecnici” – oggi imputati insieme alla famiglia Campolo – ad occuparsi di saldare la vincita. “Quando i giocatori vincevano – afferma, rispondendo alle domande del pm Rosario Ferracane – erano i tecnici che venivano a saldare. Io non mi occupavo della contabilità di queste macchinette”. Allo stesso modo, per Telli, erano i tecnici a occuparsi di “commutare le macchinette”. Punti su cui tanto la pubblica accusa, come l’avvocato Giovanni De Stefano, difensore di Campolo, ma soprattutto la presidente hanno insistito a lungo, prima che Telli ammettesse: “Io non ho nessuna competenza tecnica. Se un avventore voleva cambiare il gioco lo chiedeva a noi e noi chiamavamo l’ufficio della ditta e ci mandavano un tecnico. La differenza fra i due giochi era che in uno si vincevano soldi e in un altro no. Quello che gli avventori richiedevano era un gioco d’azzardo”.
Una risposta che non ha convinto fino in fondo la difesa, che, controinterrogando Livoti, per un periodo giocatore accanito, proprio su questo punto ha ottenuto una risposta differente: “Generalmente io trovavo questo gioco e giocavo, ma nella stessa macchina c’erano schermate diverse. Io cercavo il gioco, non la macchina. Se c’era bisogno di cambiare schermata mi rivolgevo al responsabile di sala, ma la maggior parte delle volte non era necessario”. Divergenze che forse potrebbero essere problematiche per quei soggetti – come i gestori delle sale giochi – le cui posizioni sono state archiviate su richiesta della Procura nell’ottobre scorso, ma non modificano in assoluto la gravità del compendio probatorio a carico di Campolo.
Considerato imprenditore “a disposizione” di diversi clan cittadini, Gioacchino Campolo è balzato agli onori delle cronache quando la guardia di finanza si è presentata per mettere i sigilli al suo patrimonio. Un sequestro – poi diventato confisca – del valore di oltre 300 milioni di euro. In mano allo Stato sono passati il patrimonio aziendale e i relativi beni di 4 imprese, 256 immobili – 74 abitazioni, 126 locali commerciali, 56 terreni – sparsi tra Reggio Calabria e provincia, Roma, Milano, Taormina e Parigi, 3 veicoli commerciali, 6 autovetture di lusso, 5 motocicli, 27 rapporti bancari, postali, assicurativi, azioni, individuati in Italia e in territorio francese, ma soprattutto più di cento quadri tra i quali molti di rilevantissimo pregio artistico.
Sebbene Campolo debba la sua “fama” al clamore provocato del sequestro, anche prima di conquistare le copertine di giornali e periodici era persona nota. O almeno lo era per inquirenti e investigatori che per anni hanno seguito l’evoluzione dei suoi rapporti con le cosche cittadine. «Dopo la pax mafiosa – si legge nel provvedimento di confisca che riassume anni e anni di indagini e procedimenti a carico del noto imprenditore – si era avvicinato anche alle famiglie Libri/Zindato e manteneva rapporti con esponenti della cosca Condello-Serraino-lmertl-Rosmini e Nicolò, in specie il capo locale di Gallico, Iannò Paolo, al quale ,aveva attrezzato un circolo con giochi legali e illegali prima del’95». Per i giudici, quello fra Campolo e i clan non è un rapporto di «soggezione subordinazione di Campolo – imprenditore ai vari reggenti delle cosche dominanti sul territorio per la mera sopravvivenza della ditta Are, ma un evidente rapporto paritario finalizzato alla pianificazione e conclusione degli affari e guadagni illeciti». Ma – chiariscono le indagini a carico dell’imprenditore – sebbene fosse in ottimi rapporti con tutti,il clan che su di lui ha da sempre steso un’ala protettrice sarebbe quello dei De Stefano.
A confermare gli elementi sulla contiguità di Campolo alla potente cosca di Archi che gli investigatori hanno collezionato nel corso di una lunga indagine, sono le dichiarazioni di quattro collaboratori di giustizia Paolo Iannò, killer della cosca Condello, Antonino Fiume e Giovanni Battista Fracapane, killer ed esponenti di spicco del clan De Stefano e più recentemente l’ex collaboratore Nino Lo Giudice. «Lo sapevo che Campolo gode di una certa “protettura” da molte famiglie e che aveva una “amicizia” diretta o indiretta, con l’avvocato Giorgio De Stefano. Anche se il “responsabile” su di lui era Orazio», dirà il pentito Nino Fiume ai magistrati della Dda di Reggio Calabria. Sarà quest’ultimo – come riferito, sottolineano i magistrati, «in modo estremamente chiaro e lineare» dal pentito Fracapane – a bloccare Mario Audino e  i suoi propositi omicidi  ai danni di Campolo, ma anche ad ordinare che fosse la sua Are e non la ditta dei Lavilla, come voluto invece dai Tegano, a ricoprire una posizione di vertice nel mercato degli apparecchi da gioco in Reggio Calabria. (0020)

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