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Le due facce del clan Pesce

Un clan capace di lavare con il sangue l’onta di una collaborazione, in grado di progettare l’omicidio di una o più donne di famiglia, determinato nel cercare la vendetta , «che ricorre senza remor…

Pubblicato il: 08/12/2013 – 7:17
Le due facce del clan Pesce

Un clan capace di lavare con il sangue l’onta di una collaborazione, in grado di progettare l’omicidio di una o più donne di famiglia, determinato nel cercare la vendetta , «che ricorre senza remore alla forza bruta delle armi per cancellare dalla faccia della terra chi osa ribellarsi alla sua prepotenza e per riaffermare la capacità di controllo del territorio, sfidando l`autorità dello Stato e confidando nella propria immunità, grazie alle condizioni di assoggettamento e di omertà delle vittime derivanti dalla forza intimidatrice di cui si avvale il sodalizio medesimo forte del vincolo associativo». Questa è l’anima antica dei Pesce di Rosarno, clan – scrivono i giudici del Tribunale di Palmi nelle motivazioni della sentenza All Inside, depositata nei giorni scorsi – che ha saputo riempire quel vuoto di potere negli assetti della `ndrangheta della Piana, provocato dai duri colpi che hanno messo in ginocchio la famiglia Piromalli. Una parabola già individuata nel 96 dalla Corte d’appello reggina, che nel delineare la figura del patriarca Giuseppe Pesce ne sottolineava la «posizione di prestigio, solo parzialmente documentata dalle vicende giudiziarie nelle quali il Pesce è stato coinvolto, ma che tuttavia segnalano il mafioso di razza che, partito dalle guardianie abusive, è giunto ai vertici dell`organizzazione mafiosa della piana gioiese, tanto da essere indicato da Salvatore Marasco “capo dei capi” (“zio Peppino“) al posto di Giuseppe Piromalli ormai impossibilitato, dalle vicende giudiziarie nelle quali era stato pesantemente coinvolto, a svolgere tale ruolo».
Un ruolo che però il clan, più volte finito alla sbarra per reati di mafia, svuotato di capi e gregari dalle operazioni di polizia che nel tempo ne hanno assottigliato le fila, non avrebbe potuto mantenere se accanto a quell’anima «rozza e feroce del sodalizio, la faccia forse più legata all`immagine tradizionale della `ndrangheta, che ricorre senza remore alla forza bruta delle armi», scrivono sempre i giudici, non avesse sviluppato un profilo diverso, apparentemente meno violento ma forse molto più pericoloso. «Le risultanze acquisite nel corso della lunga e complessa attività istruttoria hanno consentito, invero, di affermare – scrive il Tribunale presieduto da Concetta Epifanio, che nel maggio scorso ha distribuito  42 condanne a pene da 6 mesi a 28 anni, 20 assoluzioni e due prescrizioni – che a Rosarno (e non solo) operava una consorteria di tipo `ndranghetistico dedita non soltanto alla commissione dei tipici reati predatori (estorsioni, rapine), finalizzati all`espansione  sul territorio e al rafforzamento dell`organizzazione criminale nei rapporti di forza con le cosche avverse, ma protesa altresì ad infiltrarsi nel tessuto sano della società, mostrando una capacità di penetrazione e diffusività nella vita sociale ed economica, attraverso un reticolo di relazioni collusive e di connivenze con soggetti facenti parte della cosiddetta zona grigia (imprenditori, professionisti, appartenenti alle forze dell`ordine), che le ha permesso di fare un salto di qualità».
Un’evoluzione che per i giudici si incarna nella figura di Francesco Pesce, figlio del boss Antonino che «pur non disdegnando di impugnare un`arma (come dimostrato dalla vicenda relativa all`omicidio di Sabatino) e di rimpinguare la cassa comune – di cui, come si vedrà, teneva i cordoni – con i tipici reati di estorsione e usura di cui vive solitamente un`associazione di stampo mafioso, aveva maturato il convincimento che erano soprattutto i grandi investimenti in progetti imprenditoriali “puliti” ciò che avrebbe consentito alla cosca il rafforzamento del suo potere e il salto di qualità». Giovane reggente, Ciccio “Testuni” non esita a imporre la sua strategia anche al prezzo di scontri con gli zii Giuseppe e Vincenzo e di dure reprimende del padre Antonino, che pur ordinandogli perentoriamente rispetto verso gli  anziani del clan,  in fondo – si legge in sentenza – «si mostrava orgoglioso del figlio, della sua capacità di fiutare gli affari e di inserirsi in attività economiche e imprenditoriali lecite, attraverso le quali era possibile riciclare i proventi illecitamente accumulati dalla cosca e rafforzarne ulteriormente la potenza economica».
«Con la malandrineria, pane a casa non ne porti» dice Ciccio Pesce al padre Antonino l`8 marzo 2007, nel corso di un colloquio intercettato nel carcere di Secondigliano, sintetizzando in una semplice frase l’approccio che ha permesso ai Pesce di affermarsi nella realtà criminale della Piana di Gioia Tauro e non solo. Una filosofia in fondo condivisa – nonostante le reprimende – anche dal boss Antonino che vede nel figlio un “procacciatore d’affari” cui raccomanda – nel corso di un colloquio cui assistono anche il cognato Rocco Giovinazzo e il nipote Francesco – “via… lavorare onestamente, però, alla luce del sole… no, non toccare mai il codice penale! quando tocchi il codice penale …ricordatevelo diceva quella buon`anima». Per i giudici «il significato del consiglio che Antonino dà ai suoi familiari, in particolare a Francesco, non è quello risultante dal senso letterale dei termini utilizzati; non è la raccomanda­zione del bonus pater familias che ai suoi figli vuole insegnare l`honeste vivere, che passa anzitutto attraverso  il rispetto  della  vita,  della  dignità  e dei beni  altrui che non solo il diritto naturale, ma anche le leggi dello Stato intendono tutelare. Il linguaggio di Antonino, persona intelligentissima e scaltra, (…) va decriptato alla luce del contesto in cui esso è inserito».
Condannato a una lunga pena detentiva, si sottolinea nelle motivazione della  sentenza, il boss ne ha approfittato per progredire negli studi, risvegliando interessi culturali che dovevano essere, se non assenti, quanto meno molto sopiti allorché passava la   sua   vita   da   latitante   nelle   campagne.
«Tutto ciò – affermano i giudici – l`ha trasformato, facendolo diventare una persona diversa; ma non nel senso che egli ha voluto fare intendere. Ritiene, invero, il Tribunale – non per impressione o suggestione, ma sulla scorta del materiale istruttorio in atti, ivi compresi in primis gli esiti delle intercettazioni – che Antonino Pesce non sia mai uscito dal circuito criminoso di riferimento, non abbia mai smesso le vesti di capo della cosca mafiosa di appartenenza. I vent`anni di carcere hanno allargato il suo orizzonte visivo, gli hanno fatto comprendere che la realtà economica e sociale era cambiata e che bisognava adeguarsi al passo dei tempi. Era arrivato il momento di fare non più (solo) i malandrini, ma di cercare nuove vie, non meno pericolose di quelle battute in passato, ma anzi più subdole: le vie della mafia imprenditrice che, attraverso il consueto metodo dell`utilizzazione della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, pervade il tessuto economico sano, accaparrandosi senza apparire le fonti lecite della ricchezza». Padre e figlio parlano lo stesso linguaggio e propugnano la medesima fede in una `ndrangheta che cambia pelle senza perdere la sua anima feroce, con cui continua a convivere non solo nello stesso clan ma anche nella medesima persona. (0080)

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