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La verità del figlio del "Nano"

REGGIO CALABRIA Non ha detto più di due frasi Giuseppe Lo Giudice, il figlio dell’ex pentito Nino, ma è grazie alla sua audizione che vengono acquisiti agli atti del processo “Do ut Des” documenti …

Pubblicato il: 21/12/2013 – 17:26
La verità del figlio del "Nano"

REGGIO CALABRIA Non ha detto più di due frasi Giuseppe Lo Giudice, il figlio dell’ex pentito Nino, ma è grazie alla sua audizione che vengono acquisiti agli atti del processo “Do ut Des” documenti fondamentali.
Convocato per riferire sulle presunte minacce ricevute dal Nano, Peppe Lo Giudice ha confermato che prima di darsi alla latitanza Nino Lo Giudice si sarebbe sentito minacciato. Ma più delle parole pronunciate oggi in aula, a svelare cosa sia successo in quei giorni è l’interrogatorio cui il giovane è stato sottoposto il 7 giugno del 2013, all’indomani dell’arrivo del primo memoriale con cui l’ex collaboratore ha spiegato le ragioni della sua scomparsa, oggi transitato su istanza delle difese agli atti del processo.
Di fronte al procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e ai pm Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò, Peppe Lo Giudice ammette di aver incontrato il padre circa quindici giorni prima della scomparsa. Stando a quanto riferisce, sarebbe stato lo stesso ex collaboratore a contattare la famiglia per lettera chiedendo urgentemente un incontro. Nonostante con la moglie avesse contatti telefonici regolari, il Nano sceglie di affidare – sottolinea il figlio – per la prima volta ad una lettera la sua richiesta d’aiuto, «per cui – sottolinea – ho compreso che aveva ritenuto di non poterci dire telefonicamente quello che voleva comunicarci di persona».
Per questo, sostiene Peppe Lo Giudice, ha preferito date precise istruzioni affidandole a una missiva. «Devo premettere – mette a verbale – che era la prima volta che mio padre ci scriveva e che noi ignoravamo il luogo in cui si trovava. Questa lettera conteneva le indicazioni per arrivare al luogo in cui si trovava, a Macerata. Ricordo che sulla busta vi erano indicazioni diverse, nel senso che era indicata una via diversa da quella esatta, mentre nel foglio all’interno, che era scritto con la sua grafia così come la busta, vi erano le indicazioni esatte. In questa lettera mio padre ci diceva di raggiungerlo con urgenza perché doveva parlarci, o qualcosa del genere».
Una richiesta che deve aver generato allarme nei familiari del Nano che «poche ore dopo» – dice Peppe – si mettono in viaggio, anche se – ammette il giovane – «prima di quel giorno i rapporti con mio padre non erano buoni e provavo del risentimento nei suoi confronti. Ero risentito con lui sia perché aveva abbandonato mia madre per iniziare una relazione con una ragazza che non ho mai visto in vita mia, sia perché, per quello che ho letto sui giornali (nessuno mi ha mai formalmente contestato nulla e non mi risulta di essere indagato a causa di quelle dichiarazioni), aveva reso dichiarazioni anche a mio carico, dichiarazioni che per quanto mi riguarda non sono vere».
All’arrivo a Macerata – afferma con certezza Peppe Lo Giudice – «ho potuto constatare che mio padre era semplicemente sconvolto, non l’ho mai visto così».  
E – continua – «fin dall’inizio ho compreso che mio padre ci aveva convocato per metterci in guardia e per dirci di stare attenti». Stando a quanto Peppe Lo Giudice mette a verbale di fronte ai magistrati che lo interrogano, il Nano non avrebbe mai spiegato ai suoi le ragioni di quella condizione di terrore, come di quell’avvertimento. «Ha pianto a lungo, era disperato e diceva che non gli restava che suicidarsi», ricorda il figlio dell’ex collaboratore, che poi aggiunge: «Abbiamo più volte invitato mio padre a spiegarci quali fossero le ragioni dei suoi timori, ma lui si è sempre rifiutato, ci ha risposto che erano cose troppo delicate e che erano coinvolte persone pericolose e spregiudicate. Più volte ha detto: “Peppe, ci sono cose che non ti posso dire, sono cose pericolose, sono cose più grandi di me, ma tu ricordati che devi stare attento”. Aggiungeva anche: “Peppe ti assicuro che sono cosciente di quello che ti sto dicendo: state attenti”».
Decisamente più chiaro invece sarebbe stato il Nano sulle persone da cui la famiglia avrebbe dovuto guardarsi: «Mio padre mi ha detto ripetutamente che dovevamo stare attenti alle forze dell’ordine, in particolare ai carabinieri. (..) Ha anche aggiunto che se fossero venuti carabinieri o la polizia di notte io, prima di aprire la porta, avrei dovuto chiedere il nominativo degli agenti e chiamare in Questura o in caserma per sincerarmi che non fosse una trappola. Mi ha anche raccomandato di chiamare subito qualcuno se mi avessero fermato per strada e di dire dove mi stavano portando se avessero manifestato l’intenzione di portarmi in caserma. Era letteralmente terrorizzato».
È sicuro, convinto Peppe Lo Giudice nel spiegare i timori del padre, esclude chiaramente che si trattasse di paure relative a ritorsioni della criminalità organizzata. «Con riferimento alle forze dell’ordine diceva “fanno quello che vogliono” e lo diceva con terrore».
Sottoposto al fuoco di fila di domande dei magistrati che lo interrogano il giovane riesce ad essere solo lievemente più preciso: «Mio padre non mi ha mai detto che i suoi timori erano legati al fatto che avesse reso dichiarazioni mendaci nei confronti di terze persone. I suoi timori erano chiaramente altri, ed erano da ricondurre ad argomenti particolarmente delicati di cui non voleva parlare, argomenti nei quali erano evidentemente coinvolte le forze dell’ordine», senza però mai fare «riferimento a cose o documenti delicati che custodiva con sé e che erano riconducibili alle sue preoccupazioni».
Una versione che il Nano ribalterà in sede di interrogatorio il 15 novembre, quando il blitz della squadra mobile di Reggio e della Prima sezione dello Sco di Roma, interromperanno la sua latitanza.
«Mi riferivo al fatto – dirà di fronte ai procuratori della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e di Catanzaro, Vincenzo Lombardo, all’aggiunto Ottavio Sferlazza, e ai sostituti Giuseppe Lombardo, Giovanni Musaro?, Antonio De Bernardo e Gerardo Dominijanni – che potevano presentarsi presso i miei familiari `ndranghetisti travisati, anzi travestiti, da carabinieri. Ribadisco che la mia preoccupazione non era rivolta a persone appartenenti alle forze dell’ordine, ma a persone appartenenti alla `ndrangheta».
Eppure, stando a quanto ha spiegato il 7 giugno scorso ai magistrati Peppe Lo Giudice, «più o meno dal periodo di Natale, mia madre aveva notato che mio padre era molto strano al telefono, sembrava preoccupato e spesso diceva doveva uscire per non meglio precisati “impegni”. Questi impegni duravano diverse ore, lo so perché a volte mio padre rientrava, contattava mia madre e diceva “mi sono sbrigato ora”».
Peppe Lo Giudice non sa dire quali fossero questi impegni, tuttavia la collocazione temporale dell’inizio delle preoccupazioni del Nano corrisponde perfettamente al periodo in cui si sarebbe svolto il suo colloquio informativo con il sostituto della Dna, Gianfranco Donadio. Un colloquio che – stando a quanto affermato nei memoriali prima e in sede di interrogatorio poi dallo stesso Nino Lo Giudice – sarebbe stato per lui l’inizio di tutte le preoccupazioni. Un rebus che toccherà al Tribunale sciogliere, sulla base di tutti gli elementi – allo stato – disponibili per farlo.
Grazie alla testimonianza di Peppe Lo Giudice transitano agli atti del processo le dichiarazioni da lui rilasciate il 7 giugno, come gli interrogatori cui il padre è stato sottoposto dopo la cattura, ma acquisiscono nuovo valore anche i memoriali inviati dal Nano durante la latitanza. Il giovane ha infatti confermato che la firma apposta in calce a ogni singola pagina di quei due esplosivi documenti – con cui il Nano ha ritrattato tutto quanto in precedenza dichiarato e lanciato pesantissime accuse a carico dei magistrati che all’epoca ne gestivano la collaborazione, l’ex procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, il suo aggiunto, Michele Prestipino, e la sostituto Beatrice Ronchi, accusati di averlo indotto a rivelare cose non vere – è proprio del padre.
Ma questo po
trebbe essere un ulteriore rebus per il Tribunale. Su istanza del pm Ronchi, il Tribunale ha infatti acquisito una missiva che non reca né data, né avviso di deposito ma che – a detta del sostituto – il Nano avrebbe consegnato brevi manu al procuratore Pignatone nel corso dell’interrogatorio condotto da quest’ultimo prima del trasferimento a Roma. Tuttavia è proprio in apertura della lettera – indirizzata esplicitamente alla Procura della Repubblica, al Tribunale ordinario di Reggio Calabria, alla Dda, come ai procuratori Pignatone, Prestipino e Ronchi ma mai protocollata – che si legge: «Chi vi scrive è Lo Giudice Antonino, avrei voluto parlarne di presenza ma capisco che intralci i vostri impegni e lo faccio in questo modo».
Per il pm Ronchi si tratta di una prova importante perché – nonostante risalga ad un periodo di gran lunga anteriore alle minacce ricevute dall’ex collaboratore – fotograferebbe i rapporti con il pool che lo gestiva all’epoca. Il testo è infatti un accorato – e sgrammaticato – appello al procuratore Pignatone, cui il Nano dice: «Non vada via adesso, ancora è necessaria la sua presenza, il suo lavoro non si può fermare adesso».
Considerazioni accolte dalla presidente Capone nonostante l’opposizione delle difese che hanno contestato l’impossibilità di datare la missiva a causa della mancanza di un’indicazione chiara o di un avviso di deposito, come di considerarla una lettera privata, perché indirizzata a tre persone fisiche e a tre soggetti giuridici. Eccezioni che non hanno fatto breccia. Anche la lettera – fino ad oggi sconosciuta – diventa una prova che va ad ingrossare gli infiniti faldoni agli atti del processo Lo Giudice. (0040)

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