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Grandi opere: due pesi e due misure

Accordi capestro, ritardi nei pagamenti, oneri aggiuntivi a totale carico di una parte e se non bastasse la spada di Damocle dell’applicazione di pesanti penali. Il rapporto che si stabilisce tra u…

Pubblicato il: 05/01/2014 – 10:53
Grandi opere: due pesi e due misure

Accordi capestro, ritardi nei pagamenti, oneri aggiuntivi a totale carico di una parte e se non bastasse la spada di Damocle dell’applicazione di pesanti penali. Il rapporto che si stabilisce tra un general contractor e un’impresa subappaltante assomiglia tanto a una via crucis. Costellata di continue vessazioni. Tutte pendenti solo sulla ditta che ha la “fortuna” di aggiudicarsi un lavoro per conto di un contraente generale. La storia degli appalti delle grandi opere in Calabria segue pedissequamente questo stesso triste iter dettato da una normativa che sembra ritagliata su misura di poche, pochissime imprese nazionali. Lasciando alla loro totale mercé le aziende locali: sfruttate e vessate fino all’inverosimile. Ad iniziare dall’imposizione di un contratto – praticamente fac-simile – costellato da patti che costringono quelle aziende che abbiano intenzione di cimentarsi nel settore delle grandi opere a subire diverse storture. Così, se per il rapporto tra la stazione appaltante – sia essa l’Anas, le Ferrovie o altro – e il general contractor i tempi pattuiti per i pagamenti variano tra i 45 e i 50 giorni, lo scadenzario cambia radicalmente nel passaggio successivo. I contratti privatistici tra le grandi società e i subappaltatori contemplano una tempistica che non è inferiore, nei migliore dei casi, a 90 giorni dalla presentazione della fattura. Sempre sulla carta. Perché, in realtà, per vedere qualche soldo la società affidataria deve sudare le proverbiali “sette camicie”. Come è capitato ad una società calabrese che per vedersi quietanzata una fattura ha dovuto attendere oltre 300 giorni. Subendo nel frattempo una serie di soprusi. Senza contare le difficoltà legate a un territorio che non aiuta. Infatti quella stessa azienda è stata costretta – per sostenere gli oneri dei lavori – a ricorrere all’intervento delle banche, con un incremento dei costi vivi legati al pagamento di interessi. Ma l’odissea per questa società non è finita qui. Proprio a causa della lunghezza dei tempi dei pagamenti imposti dal contraente generale e per la stretta creditizia – che interessa in modo particolare la nostra regione – quella società ha dovuto seguire una nuova strada: sottoscrivere un contratto di factoring. Un meccanismo che avrebbe dovuto permettere all’aggiudicataria di cedere il proprio credito e ottenere liquidità per pro- seguire l’attività imprenditoriale. Una strada, questa, “suggerita” dal general contractor. E che si rivela per l’impresa calabrese un ennesimo ricatto che si ritorce ancora una volta contro. Le anticipazioni di cassa fornite dal factor si interrompono all’improvviso perché il general contractor decide di non riconoscere più i crediti vantati dall’impresa. Anzi alcune somme già erogate alla società si tramutano, come per incanto, in una nuova mole di debiti da fronteggiare. Così, per poter onorare questi ultimi, i titolari dell’impresa sono costretti a pattuire un piano di rientro con un nuovo costo aggiuntivo. Un effetto perverso pagato a caro prezzo – con interessi che oscillano tra l’8 e il 9 per cento – e che su un appalto da decine di milioni diventa un costo veramente esorbitante per qualsiasi azienda. Intanto il general contractor incassa regolarmente le spettanze da parte della stazione appaltante e introduce un altro meccanismo “infernale”, in realtà applicato fin dall’inizio del contratto: il sistema di rimborso di quello che in gergo si chiama “riserva d’appalto”. In altre parole, i costi aggiuntivi che possono derivare da un imprevisto insorto nel corso dei lavori – ad esempio una scoperta archeologica nel sito teatro dell’intervento – e che dovrebbero essere rimborsati a parte dalla società che realizza l’opera. In questo caso la società subappaltante. Imprevisti che, per essere riconosciuti come tali e poi liquidati, devono essere segnalati nell’immediatezza. Procedura che è stata regolarmente seguita dalla società calabrese e puntualmente rigettata dal general contractor. Salvo poi reclamare questi stessi costi aggiuntivi bocciati come oneri proprio da parte del contraente generale alla stazione appaltante. Un espediente giocato alle spalle dell’azienda calabrese che si vede costretta a dover subire la maggiorazione degli oneri senza trarne vantaggio. A differenza del general contractor che, viceversa, riesce ad ottenere regolarmente un rimborso che puntualmente non è stato riconosciuto come tale al subappaltante. Così al danno, per quell’azienda, si somma la beffa. Soprattutto perché, a norma del contratto sottoscritto con il general contractor, si ritroverà anche a dover pagare alla fine la penale per la ritardata consegna dei lavori, dettati proprio dalle riserve che via via l’azienda aveva segnalato e che puntualmente si è vista bocciare. Un meccanismo che potrebbe essere stato ampiamente utilizzato dal general contractor. Basti pensare che proprio sulle riserve vantate dai contraenti generali nei confronti della stazione appaltante pendono due lodi arbitrali per due lotti della 106 di ben 700 milioni. Così, mentre le aziende calabresi rischiano di fallire e con esse l’intera filiera produttiva delle costruzioni, le grandi imprese che si sono aggiudicate le opere nella nostra regione raccolgono a piene mani utili. Lasciando il più delle volte incomplete le opere avviate. Con buona pace di chi, come le stazioni appaltanti, dovrebbero vigilare attentamente anche sul rispetto di questi contratti capestro. Come più volte denunciato sia dalla Corte dei conti sia dall’Autorità garante dei lavori pubblici che su questa materia si è pronunciata ampiamente. E a farne le spese maggiori diviene ancora una volta la Calabria che dimostra di essere, anche sotto questo aspetto, terra di saccheggio per le imprese del Nord.

(servizio pubblicato sul numero 120 del Corriere della Calabria)

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