REGGIO CALABRIA «Il paesaggio non va né modificato né tutelato in nome di soli principi estetici. Al paesaggio “da guardare” dobbiamo saper sostituire il paesaggio “da vivere”; e piuttosto che ripetere stancamente il luogo comune secondo cui “la bellezza salverà il mondo”, dobbiamo dire chiaro e forte che la bellezza non salverà nulla se noi non sapremo salvare la bellezza». Chissà se i massimi vertici delle istituzioni politiche locali – accorse in gran numero alla cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Architettura con cui l’Università Mediterranea ha voluto omaggiare l’archeologo e intellettuale Salvatore Settis – avranno apprezzato la lectio magistralis con cui il professore ha incantato l’ateneo e fustigato i presenti. E che il ministro dell’Istruzione Carrozza abbia affermato di «non aver paura di essere fustigata da intellettuali come il professore Settis, perché abbiamo bisogno di liberi pensatori, di critiche costruttive. Noi abbiamo bisogno degli intellettuali».
Di certo, l’illustre studioso – che architetto non è di formazione, ma più volte ha messo al centro della sua riflessione la distruzione dello spazio urbano e non in Italia – non le ha mandate a dire. E c’è da scommettere che quella riflessione «sul mestiere di architetto e sul suo forte e capillare impatto sulla vita di tutti attraverso le modificazioni, a volte anche drammatiche, dell’ambiente umano e del paesaggio, cioè delle condizioni prime non solo della vita quotidiana dei cittadini e delle comunità, ma anche delle dinamiche della società civile», a qualcuno non sia andata giù.
Una riflessione non neutra, non tecnica ma da calabrese «testimone – dice Settis – del colpevole, inarrestabile sterminio delle caratteristiche naturali dei nostri paesaggi». Un «delitto perpetrato impunemente soprattutto nella fascia costiera» – ricorda il professore – e che al Sud vede Calabria, Campania e Sicilia ancora una volta sul podio dei record negativi. E i numeri sono impietosi: nei 700 chilometri di costa calabrese nel 2009 – sottolinea Settis – sono stati censiti 5210 abusi edilizi, mediamente uno ogni 135 metri, di cui 54 all’interno di aree marine protette, 421 in siti di interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale, incluse le aree archeologiche.
«Tali devastazioni – tuona l’accademico rosarnese – sono l’opera di una perversa alleanza fra forze diverse dell’imprenditoria, della finanza, della politica e delle mafie», ma aggiunge «le responsabilità sono molto più grandi e includono anche quelle di architetti, ingegneri e urbanisti». E se per i professionisti è necessaria una netta, radicale inversione di rotta – auspica il professore – che metta al centro del mestiere quel vincolo con la società e il bene comune che anni di speculazione edilizia e colate di cemento hanno cancellato, in omaggio a un eterno presente che ha cancellato la storia, ma nega anche il futuro, anche i cittadini e la politica sono chiamati a insorgere contro lo sterile consumo di suolo.
Un business che in Italia vanta numeri da capogiro – otto metri quadrati al secondo, pari a due o tre Milano o Firenze l’anno, spiega Settis – nonostante una crescita demografica pari a zero e una morfologia del territorio che «lo rende esposto a terremoti, eruzioni vulcaniche e altre calamità, il cui impatto cresce quando si alterano i già precari equilibri naturali». Ma il mattone che «continua ad attrarre i risparmi dei cittadini ma si è rivelato soprattutto adatto a lavare il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo in rendita fondiaria» ha sempre goduto della tutela politica di chi vi ha sempre visto un volano per l’economia. «Sfugge a politici e imprenditori – dice senza mezzi termini l`ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa – che la presente crisi economica fu innescata proprio dalla bolla immobiliare americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta anche alla mancanza di investimenti produttivi e si capacità di formazione. Si utilizza invece il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da sfruttare spolpandola fino all’osso, un cadavere da macellare». Per Settis, non sta in nuove colate di cemento la soluzione, tanto meno la via d’uscita dalla crisi. «Di lavoro per imprese e operai ce ne sarebbe di più se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio, se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con nuova edilizia di qualità». Servono – dice Settis – «nuove politiche dell’abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione e all’immagine della società che vorremmo, abbattendo e riqualificando», ma questa rivoluzione «esigerebbe architetti meglio attrezzati, assessori meno proni al volere d’ogni palazzinaro, cittadini capaci d’indignarsi. Nell’orizzonte italiano – è la conclusione amara del professore – non si vede l’alba di questa consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri di discussione della politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela dell’ambiente».
È dunque in questo quadro – sconfortante – che all’architetto, spiega Settis, si chiede «un nuovo patto con la società, un nuovo giuramento di fedeltà ai principii, una nuova consapevolezza e una nuova etica» che abbia come «stella polare» il bene comune, che «vuol dire visione lungimirante, investire sul futuro, preoccuparsi della comunità dei cittadini, prestare prioritaria attenzione ai giovani, alla loro formazione e alle loro necessità». Questi sono i princìpi che per Settis devono ispirare una nuova tutela, o meglio un nuovo restauro del paesaggio urbano, periurbano ed extraurbano. Questioni né di nicchia – afferma il professore – né da addetti ai lavori, ma – come la stessa Costituzione esplicita all’articolo 9 – «nodi essenziali di un più vasto orizzonte di diritti, perché essenziali alla democrazia, all’uguaglianza, all’esercizio delle libertà civili». (0070)
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