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In scena con Laura: «Io, sul set con Al Capone»

«Niente, stavo sul set con Al Capone e a un certo punto…»: se non fosse per la familiarità con cui parla dei divi del grande e del piccolo schermo, a sentire Laura Caparrotti si direbbe che inter…

Pubblicato il: 20/04/2014 – 9:56
In scena con Laura: «Io, sul set con Al Capone»

«Niente, stavo sul set con Al Capone e a un certo punto…»: se non fosse per la familiarità con cui parla dei divi del grande e del piccolo schermo, a sentire Laura Caparrotti si direbbe che interpreta la protagonista di una fiction in cui la «ragazzetta» di origini calabresi formatasi a Roma e partita inseguendo il sogno americano riesce, alla fine, a frequentare alla pari i grandi nomi del jet set Usa. Invece è tutto vero e il sogno è diventato realtà: di passaggio da Cosenza, la Caparrotti riceve una mail. «È la produzione di Boardwalk Empire»: la serie tv della Hbo sulla mafia di Atlantic City ai tempi del proibizionismo (con Steve Buscemi e Michael Pitt, la IV stagione in esclusiva su Sky in questa primavera 2014), il cui episodio pilota è stato peraltro diretto da Martin Scorsese, le ha chiesto di contattare uno dei protagonisti per chiarirgli dei dubbi sulla pronuncia di alcuni termini italiani. Può accadere che l`italoamericano Vincent Piazza–Lucky Luciano, oppure Stephen Graham (che nella serie è, appunto, Capone) o Bobby Cannavale non si trovino – nonostante le chiare origini – a proprio agio con un`espressione all`apparenza esotica, per non dire ancestrale, che a Laura suona familiarissima: perché fuor di retorica, il legame che ti lega alla tua terra d`origine non si recide mai.
“Expat” che conosce alla perfezione tutti i rivoli della torrenziale presenza italiana nella Grande Mela, la Caparrotti è tornata a calcare – 23 anni dopo, ma da curiosa e non da attrice – le tavole del rinnovato teatro “Morelli”: le stesse che condivise nel 1990 con Mario Carotenuto. Cos`ha provato? «Che emozione!», risponde. «Ricordo tutto di quella sera, l`arrivo a teatro, gli applausi, le mie zie che si alzarono in piedi salutandomi da lontano. Quella tournée con Mario Carotenuto è stata la mia prima tournée e rimarrà per sempre dentro al mio cuore. Non solo scoprivo il teatro, facevo soprattutto le prime esperienze professionali, vivevo anche un modo di vivere che non avrei mai più assaporato. Carotenuto veniva dal teatro di giro, la sua era una famiglia di teatranti,  le tavole del palcoscenico erano il suo ossigeno. Ogni sera imparavo qualcosa di nuovo. Una esperienza che non si è mai ripetuta. Ecco, cinque minuti sul palcoscenico del Morelli mi hanno riportato a tutto ciò».
Lei ha studiato recitazione e scrittura teatrale con mostri sacri del calibro di Dario Fo e Annie Girardot: cosa le è rimasto del loro insegnamento, dentro e fuori il teatro?
«Credo che mi abbiano dato la visione che del teatro ho oggi. Mi hanno insegnato a respirare teatro, ad avere una visione d’insieme, a fidarsi, a buttarsi, ad amare questo lavoro fino in fondo. Non riesco a descrivere la magia di quegli incontri, quando li guardavo quasi imbambolata, con la voglia di rubare il rubabile, che allora forse era meno di quello che potrebbe essere oggi. Sono stata molto fortunata: Annie Girardot, Dario Fo, Mario Carotenuto, Giancarlo Cobelli, Lucilla Morlacchi e tutti gli artisti – Peter Brook, Grotowsky, Peter Stein – che ho incontrato all’Università grazie alla visione non convenzionale del mio professore, Ferruccio Marotti, e che mi hanno fatto vedere il teatro attraverso i loro occhi che pian piano sono diventati i miei».
La storia di suo nonno è una saga che merita di essere raccontata per come, da sola, costituirebbe di per sé una sceneggiatura: vuole accennarcela?
«Mio nonno nasce a Maierato a fine Ottocento e studia medicina a Napoli. Dopo la laurea si trasferisce a Firenze, dove oltre ad essere apprezzato come medico – era davvero eccezionale –, aveva raggiunto una buona posizione sociale. Oltre a fare il medico, nonno Giuseppe si interessava di politica tanto da diventare presto membro del Partito comunista allora appena formatosi. Con l’avvento del fascismo, mio nonno, rischiando posizione e vita, diventa un antifascista conosciuto e temuto. Grande amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del partito, una sera a Firenze è la vittima prescelta, insieme a pochi altri, di una retata da parte dei fascisti fiorentini. Mio nonno riesce a fuggire (le leggende narrano che si nascose in un grande sacco di patate) e si rifugia in Calabria, dove il regime fascista lo condanna a stare in confino per venti anni (la nonna di Laura è di Cosenza, come il padre, mentre la madre è nata a Firenze – ndr). Negli anni 40, non ricordo se ’42 o ’44, lui e Bordiga stracciano la tessera del Partito comunista accusandolo di fare i propri affari senza curarsi dei lavoratori. Insomma, si potrebbe dire che aveva anticipato i tempi. Ho ancora i suoi libri, fra cui quelli di Sartre, dove lui commentava con veemenza citando fatti a lui contemporanei. Non ho mai pensato ad uno spettacolo sulla storia di mio nonno fino ad ora. In questo periodo, però, ogni tanto mi soffermo a pensare che sarebbe bello rendergli onore narrando non solo le sue battaglie, ma anche le sue delusioni, lo sconforto che ebbe dopo una vita di rischi e ideali. Chissà che un giorno non accada. Sarebbe bello, nonno Caparrotti lo meriterebbe».
Lei è spesso in visita in Calabria: si è fatta un`idea dell`offerta, delle risorse e delle politiche culturali calabresi? È un patrimonio adeguatamente valorizzato?
«Più che in visita, sono fissa in Calabria d’estate da quando avevo… un anno. La casa di famiglia è a Pizzo e io non riuscirei mai a non fare una capatina in Calabria almeno una volta all`anno. Come ripeto spesso quando mi chiedono del mio rapporto con questa terra, dico che Roma, la città dove sono nata e vissuta fino ad un certo punto della mia vita, e New York, dove vivo ora, sono la mia vita, mentre Pizzo e la Calabria sono il mio cuore. È come se le radici di Laura fossero ben piantate qui. Per quanto riguarda politiche e patrimonio… e cultura, beh, diciamo che dividerei la questione in due aspetti. Quello degli artisti che ho incontrato che sono fantastici, eccezionali, lavoratori, innovatori. C`è tanto di quel materiale in questa nostra terra che sorprende – felicemente – perché è vario, è tutto estremamente valido, ed è vero e onesto. La politica… credo che il fatto che la Calabria sia poco conosciuta nel mondo e quando lo è, spesso lo è per fatti di malaffare, dica tutto. Però non condannerei solo la Calabria. Vivo in America da troppo tempo e ormai è una certezza che l`Italia, tutta, non vuole valorizzarsi, non sfrutta, ma anzi distrugge le davvero immense risorse che ha. È un discorso generalizzato, ovviamente, che però è genericamente valido. Quelle poche forze valide, anche in Calabria, rischiano spesso di soccombere irrimediabilmente. Purtroppo ho poche speranze che le cose cambino, ma si sa, la speranza è l’ultima a morire e dunque continuiamo a sperare!».
Da rappresentante della famiglia De Curtis in America ha toccato con mano l`amore che lega gli italoamericani al mito di Totò, ma anche ad altre figure nostrane che Oltreoceano sembrano assumere connotazioni mitologiche. Al di fuori della moda e del cibo, qual è attualmente l`“icona” del brand Italia a New York e negli Usa se si parla di cultura e di spettacolo?
«Fellini sempre, per gli altri dipende dai periodi. Dopo l’Oscar pareva esistesse solo Benigni. Nel campo della danza ci sono Alessandra Ferri e Roberto Bolle, mentre nella lirica i divi sono Pavarotti (ancora adesso molto amato) e Bocelli. Questi i nomi se parliamo di popolazione, non grandi numeri comunque. Per i grandi numeri, le vere dive sono Firenze, Venezia e Roma. Gli esperti, invece, amanti dell’Italia e della cultura in genere, conoscono anche Visconti, De Sica, Rossellini… I nuovi nomi, volti, registi vengono apprezzati, ma non diventano più icona propriamente detta. Totò è un mito fra quegli italo-americani che hanno mantenuto da sempre  un legame con l’Italia. Ho girato sia gli Stati Uniti che il Canada con Totò e ovunque mi trovassi, incontravo un pubblico entusiasta e in adorazione. Mi parlavano di Totò come di un parente stretto e che ne
ll’esprimere il loro amore verso il nostro attore si commuovevano. Per non parlare di quelli che io chiamo i miracoli di Totò: ovunque io sia andata, ho trovato qualcuno che lo aveva conosciuto da giovanissimo oppure qualcuno che lo viveva come un vero e proprio mito, tanto, ad esempio, da tatuarlo sul braccio. Questa è la parte meravigliosa del mio lavoro di divulgazione della nostra cultura all’estero. Vedere tantissimi sorrisi accogliere i nostri tesori».
Lo scorso giugno, la prima edizione di “In Scena!” – il primo festival di teatro italiano presentato in tutti i cinque distretti di New York –, di cui lei è fondatrice e direttrice artistica, ha avuto un grande successo di pubblico e critica. Può anticiparci qualcosa della seconda edizione?
«Mi piacerebbe anticiparvi tutto ma… Quest’anno ci sono i campionati del mondo di calcio, dunque stiamo lavorando a far convivere questi due miei grandi amori (Laura è una romanista sfegatata, ndr). Non è facilissimo, ma è divertente e obbliga a pensare a nuove strategie, eventi diversi e ad un pubblico da soddisfare, fatto non solo di amanti del teatro. Manterremo sicuramente la stessa formula, con qualche leggero aggiustamento. Siamo talmente soddisfatti di come sia andata la prima edizione che al momento vogliamo solo consolidare quello che abbiamo per poi, fra qualche anno, ampliare il tutto. Uno dei fattori forse di maggiore novità è la volontà di dare agli artisti la possibilità di fare una tappa fuori New York, post festival…».
E i suoi progetti, per questo 2014 cosa prevedono?
«Molte belle cose. A fine dicembre 2013 è partita una nuova serie che vede protagonisti i giovani della mia compagnia, la Kairos Italy Theater. I ragazzi della YoungKit, così si chiama la compagnia dei giovani della Kit, affronteranno testi classici come “La Mandragola” di Machiavelli e il “Decamerone” di Boccaccio. Vogliamo presentare questi testi adattati in inglese, con parti nel linguaggio originale, dando particolare importanza al testo e agli attori. Niente scene, pochi costumi. Spettacoli snelli da portare ovunque per far avvicinare o riavvicinare il pubblico ai nostri testi più conosciuti e tradotti all’estero. “La Mandragola” è stata presentata a dicembre, mentre il “Decamerone” a marzo, alla Casa italiana Zerilli-Marimò alla New York University, dove la compagnia ha la residenza. Sempre a marzo, abbiamo riportato in scena uno spettacolo che ha debuttato con grandissimo successo nel 2010 a New York: si tratta di “Tosca e le altre due” di Franca Valeri, tradotto in inglese in “Tosca and the two downstairs”. La storia è quella della portiera di Palazzo Farnese e della moglie del torturatore di Scarpia. Le due si incontrano la sera in cui Tosca, al piano di sopra, uccide Scarpia. Il testo della Valeri è fantastico, un piacere recitarlo, dirigerlo e a giudicare dalle reazioni di pubblico e stampa, vederlo. Dal 16 al 30 marzo siamo stati alla Dicapo Opera, un bellissimo teatro sulla settantaseiesima strada. Poi ci sono altri eventi e spettacoli che stiamo definendo in questi giorni e, infine, c’è il Festival “In scena!” a giugno. Per l’autunno 2014 stiamo pensando ad un altro testo da fare con la YoungKit, probabilmente Petrarca o Eduardo. Se volete rimanere aggiornati, consultate il nostro sito www.kitheater.com».
La Kit spegne 14 candeline: vuole provare a fare un bilancio?
«Il bilancio è positivo, sicuramente. Si poteva fare di più, meglio, potevamo forse essere già più conosciuti e diffusi anni addietro, ma alla fine poco importa. Ora siamo ad un ottimo punto e possiamo solo far meglio. In quattordici anni, abbiamo prodotto circa 20 spettacoli, abbiamo realizzato eventi, formato classi e insegnato, inventato festival, creato gruppi, fatto conoscere oltreoceano attori, scrittori e registi del nostro Paese e siamo diventati il referente del teatro italiano negli Stati Uniti. Direi che per i primi quattordici anni non possiamo proprio lamentarci. Mi piacerebbe che i prossimi fossero altrettanto proficui così da arrivare al ventesimo anniversario con magari un teatro italiano da inaugurare… è il mio sogno e io a sognare sono bravissima!».
Che differenza c`è tra lavorare in teatro e far parte di una megaproduzione come Boardwalk Empire, serie cult in cui lei riveste il ruolo di dialect coach?
«Da una parte non c’è grande differenza. Quando insegno come pronunciare una frase in dialetto, quando la traduco, lavoro sul contesto in cui la frase viene detta, lavoro con l’attore che la deve interpretare per capire quale sia il vero significato della frase. Facciamo un bel lavoro a tavolino. Poi, certo, è tv, anzi nel caso di Boardwalk Empire è praticamente cinema: se una frase non viene bene, la si ripete all’infinito. Personalmente è un’esperienza bellissima, gratificante e molto interessante per il mio lavoro, ma anche perché tutti i grandi artisti con cui lavoro si comportano come persone normali e non come divi. Insomma, una gran bella avventura!».

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