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Il rap consapevole di Kento

Guccini ma anche i Clash di “Rock the casbah”. Quello di Kento è un pantheon musicale eppure “politico”, ma nel senso più puro del termine. E rifugge i luoghi comuni cui un genere come il rap sta g…

Pubblicato il: 28/04/2014 – 19:28
Il rap consapevole di Kento

Guccini ma anche i Clash di “Rock the casbah”. Quello di Kento è un pantheon musicale eppure “politico”, ma nel senso più puro del termine. E rifugge i luoghi comuni cui un genere come il rap sta gradualmente cedendo, dopo essere sbarcato nel cosiddetto “mainstream” dei talent e, da ultimo, con una vittoria a Sanremo Giovani. Il giovanilismo e la leggerezza delle tematiche – non che i testi di Kento siano “grevi”, solo più consapevoli – non trovano spazio in “Radici”, il nuovo album di Kento & The Voodoo Brothers acquistabile in tutti i negozi di dischi e store digitali. Non è soltanto una questione anagrafica, ma forse di formazione culturale prima che musicale, e anche in questo senso civica, politica: «Scrivo “Cuba Libre” e non intendo rum e cola», rima per mettere subito le carte in tavola Kento in “Musica rivoluzione”, da segnalare anche per il videoclip diretto da Ludovico Boccianti, davvero efficace ed esplicito nella sua durezza.
In quella che in gergo si definisce “scena” calabrese, Francesco Carlo (è questo il nome di Kento, 37enne nato a Reggio) è rispettato già dai tempi in cui, nei Kalafro, proponeva un mix di sonorità e contenuti originali rispetto agli altri rapper. «La radice del mio suono sta nel canto popolare, parlo in dialetto con rispetto per gli anziani» (“Roots music”), e ammette che il suo è «inchiostro nero come polvere da sparo», insomma le parole come arma contro quelle subite acriticamente.
Nel suo secondo lavoro da solista, Kento ha chiamato a raccolta una vera e propria all star band, proponendosi di «prendere il meglio dell’espressione lirica sperimentata nell’album precedente e unirla ad un sound che abbandona quasi del tutto i classici campionamenti tipici della musica rap per affidarsi al calore del suono analogico». E di strumenti suonati (bene) ce ne sono davvero tanti.
«Dal punto di vista dei testi – spiega –, la passione per il rap degli Anni 80 e 90 incontra quella per il cantautorato italiano e la canzone di protesta degli Anni 60 e 70, insieme agli echi d’oltreoceano della spoken word e slam poetry più storica», la poesia da strada e di denuncia di Gil Scott-Heron, The Last Poets, Mutabaruka e Linton Kwesi Johnson. Il risultato è un suono contaminato come pochi, che «si propone di ridiscendere le radici della black music fino al blues del Delta degli Anni 20 e 30, partendo dalla “musica del diavolo” di Robert Johnson ma senza dimenticare la lezione di gruppi come The Roots, A Tribe Called Quest, De La Soul, Blackalicious, Jurassic Five e di concept come Guru’s Jazzmatazz e Blakroc, l’album del 2009 che vede i Black Keys accompagnare alcuni tra i rapper più noti della scena di New York». Pietre miliari della cosiddetta golden age, l`età dell`oro del rap statunitense.  
In “Radici”, dunque, le collaborazioni nelle intenzioni della band «ribadiscono la trasversalità del progetto»: si parte da Paolo Pietrangeli, caposcuola della musica di protesta degli Anni 60/70 e autore della storica “Contessa” (qui nella traccia bonus “Hazet 36”) e si arriva fino ad Havoc dei Mobb Deep, leggendario gruppo rap newyorchese che, soprattutto nei Novanta, ha riscritto il concetto di hard-core nell’hip hop contemporaneo. Nel disco anche altri rapper di spessore come Danno dei Colle der Fomento ed Ensi, uno dei migliori freestyler d’Italia (“Mp38”). In “RC confidential” si mutua un classico titolo della letteratura poliziesca di James Ellroy per intonare un`ode alla propria città, più amore che odio e delusione.
E troviamo anche il poeta Lello Voce (“La poesia nostra”), principale esponente della slam poetry nel nostro Paese, il sound reggae internazionale di Lion D (“Roots music”), lo storico dj e produttore romano Ice One (in “Voodoo” proprio con Havoc e con Danno in “Ghost dog”, forse il brano più puramente rap dell`album) e – non ultima – la voce di Giovanni Impastato, che racconta un aneddoto inedito sulla vita del fratello: in “Peppino e il mulo” si racconta di un Carnevale al circolo Musica&Cultura di Cinisi, una dissacrante passeggiata in centro con l`amico Gaspare con tanto di ingresso nel bar frequentato dai mafiosi, poi nel circolo dei nobili. Secondo Peppino «gli asini meritano rispetto perché hanno cuore, anima, intelligenza e rispetto per l`uomo», racconta il fratello nella traccia. «Fu uno scandalo» per il paese.
La produzione artistica di “Radici” è affidata a David “Shiny D” Assuntino (pianoforte, synth, piano elettrico, organo, voce) e a Federico “JolkiPalki” Camici (basso, ukulele bass). Gli altri musicisti coinvolti nel progetto sono Davide Lipari (chitarra, armonica, voce), Cesare Petulicchio (batteria, percussioni) e i Dead Shrimp, trio delta blues composto da Sergio De Felice (voce), Alessio Magliocchetti (chitarra, dobro, slide guitar) e Gianluca Giannasso (batteria, percussioni). [0070]

Eugenio Furia

e.furia@corrierecal.it

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