REGGIO CALABRIA Ci sono voluti cinque giorni di camera di consiglio ma il messaggio che il presidente del Tribunale Silvana Grasso ha voluto lanciare con la sua ultima sentenza a Reggio Calabria è chiaro. A 15 anni da quel gennaio ’99 in cui il Tribunale della città dello Stretto ha messo un primo fondamentale mattone nella ricostruzione delle dinamiche che hanno governato e gestito i clan cittadini con la valanga di ergastoli del processo Olimpia, oggi un nuovo passo, decisivo, è stato fatto. Perché l’indagine che di Olimpia è la naturale prosecuzione ha passato indenne lo scoglio del primo grado, confermando punto per punto l’inchiesta del pm Giuseppe Lombardo, deciso a restituire alla città un’immagine attuale, reale e concreta della struttura della `ndrangheta visibile, base e presupposto per i futuri, già avviati procedimenti in cui a processo andrà la struttura invisibile di questa realtà criminale.
«La `ndrangheta – aveva avvertito in sede di requisitoria il pm Lombardo – non finisce agli imputati di questo processo, questo è l’abito da lavoro del sistema criminale di cui fanno parte, quello che veste l’abito da sera e frequenta salotti dove l’abito da lavoro non è ammesso». Ma non per questo, la `ndrangheta – che per Lombardo è, al pari di Cosa nostra, della camorra e delle altre organizzazioni, «socia di minoranza» di quel sistema criminale per il quale negli anni ha fatto il lavoro sporco, ha eseguito gli ordini, ha gestito situazioni di crisi, con capacità di intervento modulate a seconda delle esigenze e del rischio – deve essere graziata al momento della sanzione. E così non è stato per gli imputati del procedimento “Meta”, per i quali il sostituto della Dda reggina aveva invocato pene durissime e una sentenza «che riduca la forbice fra verità storica e verità processuale». Oggi quelle pene e quella sentenza sono arrivate.
IL DIRETTORIO
È una vera e propria mannaia la sentenza che ha condannato a oltre 300 anni di carcere tutti gli imputati del processo “Meta”. E condanne pesantissime arrivano prima di tutto per quelli che di diritto fanno parte del direttorio di vertice, cristallizzato nel capo A della rubrica, integrato solo qualche udienza prima della requisitoria. Un «articolato organismo decisionale di tipo verticistico di cui dirigono e compongono l’azione, strutturato in ossequio alle tendenze evolutive registrate al termine della seconda guerra di mafia, 1985-1991», al cui interno ruoli, compiti e responsabilità sono diverse e strutturate, ma non per questo meno pesanti. Ventisette anni dovrà scontare Giuseppe De Stefano, mentre a una pena di 20 anni di reclusione sono stati condannati il superboss Pasquale Condello, Giovanni Tegano e Pasquale Libri, il “custode delle regole”. Una condanna pesantissima, pari a 23 anni di reclusione, è arrivata anche per Domenico Condello, nipote del superboss e oggi riconosciuto dal Tribunale come elemento di collegamento fra il direttorio e il resto dell’organizzazione.
GLI ALTRI IMPUTATI
E durissime sono le condanne arrivate anche a carico degli altri imputati. Dovrà passare 23 anni dietro le sbarre Pasquale Bertuca, mentre è di 21 anni la condanna inflitta a Antonino Imerti e di 18 anni e 4 mesi quella disposta per Giovanni Rugolino. Per il boss Cosimo Alvaro, i giudici hanno invece deciso una condanna a 17 anni 9 mesi e dieci giorni di reclusione più 1500 euro di multa, mentre è di 16 anni la pena inflitta a Domenico Passalacqua e Francesco Creazzo. Sono invece 13 gli anni di reclusione decisi per Natale Buda, mentre dovrà scontare 10 anni di carcere Stefano Vitale. Una condanna pesante arriva anche per l’imprenditore Nino Crisalli, condannato dai giudici a sei anni di carcere perché pur di riscattare il proprio patrimonio all’asta fallimentare, durante la quale stava per essere liquidato, ha deciso di chiedere “garanzie”, legittimando – ha sottolineato il pm in sede di requisitoria – «l’autorità dei vertici territoriali della `ndrangheta e contribuendo dunque al rafforzamento dell’organizzazione». Infine, condanne arrivano anche per l’ex sindaco di San Procopio, Rocco Palermo, punito con 4 anni e sei mesi di carcere, Antonio Giustra, condannato a 3 anni e sei mesi, e Carmelo Barbieri, cui i giudici hanno inflitto una pena di tre anni.
RISARCIMENTI MILIONARI
Il Tribunale ha anche condannato tutti gli imputati a risarcimenti milionari in favore delle associazioni che si sono costituite parte civile. Due milioni di euro ciascuno vanno al Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno, Regione Calabria, Provincia di Reggio Calabria, mentre 500mila euro sono andate all’associazione Libera. In più, gli uomini del direttorio sono stati condannati a versare due milioni di euro al Comune di Reggio Calabria, mentre la medesima istituzione dovrà ricevere 800 mila euro da Antonino Imerti, Domenico Passalacqua, Giovanni Rugolino, Nino Crisalli, Antonio Giustra, Cosimo Alvaro e Rocco Palermo. Francesco Creazzo dovrà invece risarcire con 500mila euro il Comune di San Roberto, medesima cifra che dovrà ricevere il Comune di Fiumara di Muro da Antonino Imerti, Domenico Passalacqua, Stefano Vitale, Natale Buda, Pasquale Bertuca. Anche il Comune di Scilla – hanno stabilito i giudici – avrà diritto a 500mila euro di risarcimento da parte di Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello, Pasquale Libri Giovanni Tegano, Francesco Creazzo, mentre un milione di euro dovrà ricevere l’amministrazione di Villa San Giovanni da Antonino Imerti, Domenico Passalacqua, Stefano Vitale, Natale Buda e Pasquale Bertuca. (0020)
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