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Alla luce dell'ombra. Ricordo di Luigi Cipparrone, fotografo e teorico

di Marcello Walter Bruno * Non si può fotografare il pensiero, ma si può pensare la fotografia.E così Luigi Cipparrone – fotografo nell’epoca dell’arte concettuale, quando nessun artista può e…

Pubblicato il: 23/05/2014 – 22:00

di Marcello Walter Bruno *

Non si può fotografare il pensiero, ma si può pensare la fotografia.
E così Luigi Cipparrone – fotografo nell’epoca dell’arte concettuale, quando nessun artista può essere naïf – ha affiancato la sua attività di produttore d’immagini tecniche con le tecniche della riflessione teorica, “alla ricerca di un’Idea” con la i maiuscola, come sottotitola il suo saggio “Meccanica, fotografia” (pubblicato, come faceva Ghirri, dalla sua propria casa editrice: le nuvole, con le iniziali minuscole). E siccome l’Idea è per definizione platonica, Luigi Cipparrone partiva dal mito della caverna, affascinato dalle ombre come segni di qualcos’altro, “spirito dei morti”. La prima immagine del libro è un autoritratto sotto forma di ombra sull’asfalto: un omaggio al suo amato Ugo Mulas, ma anche all’Antonioni di “Blow-Up”, il film che dà il titolo alla collana in cui compare il volumetto.
Per un operatore culturale che ha sempre lavorato didatticamente sul foro stenopeico, è ovvia la centralità della camera oscura come luogo in cui l’immagine si forma, in cui l’immagine si ferma (arrivando dal mondo esterno): qui Luigi azzarda il concetto di “codifica automatica”, senza citare il Pasolini che aveva definito il cinema “la lingua scritta della realtà”. Insomma, l’avversione a tutti i pittorialismi è dovuta alla ricerca dello “specifico fotografico”, e lo specifico è quello di un automa che non ha bisogno di mani umane o di menti umane: scattare una fotografia è, come dicono gli anglofoni, “to take a picture”, prendere un’immagine che è già là, nel mondo di fronte. Come per Freud l’io è solo un organo percettivo di ciò che giace nell’inconscio, la macchina fotografica è solo la tecnologia che registra quel grande inconscio ottico che è la realtà: e in questo, evidentemente, Cipparrone è d’accordo col filosofo Benjamin e col fotografo Vaccari. Meccanica, dunque, la fotografia: ma se la scrittura automatica dei surrealisti conta sul flusso di un inconscio lacaniano, cioè strutturato come un linguaggio, come fare fotografia automatica? Come liberare l’immagine dall’ingombro di quello che Barthes chiama col termine latino “operator”?
All’estremo gesto concettuale di Duchamp, che “firma” come opera d’arte qualunque oggetto semplicemente indicandolo con un dito (in una provocatoria parodia del concetto stesso di indice), Luigi Cipparrone preferisce il pugno stenopeico di Paolo Gioli, che “afferra e trattiene ciò che si vede come a fermare la ruota del destino che invece continua a girare inesorabile”. Questa tecnica sorprendentemente semplice e poetica permette insomma di “acchiappare le ombre”, chiudendo il cerchio di un desiderio che arriva dal fondo cavernoso dell’antica Grecia.
L’ultima parte del libro “Meccanica, fotografia” s’intitola ambiziosamente “Ipotesi” e contiene tre serie di polaroid. Nella prima, un corpo in movimento si sfuoca al punto da apparire come un’ombra scura sullo sfondo di un flusso marino. Nella seconda, la stessa inquadratura si ripete sopra firme diverse, attestando la supremazia dell’automa sull’operator. Nell’ultima, la definizione di “autofotografie” confligge con la presenza del corpo di Luigi: si tratta di autoscatti o di eteroscatti? Resta il fatto che, tra il selfportrait dell’inizio e l’autofotografia dell’ultima pagina, l’anti-autore sembra credere che essere fotografati è meglio che fotografare, lo spectrum vince sull’operator, restare nel ricordo è meglio che ricordare.
Luigi resta come un’ombra – e noi ricordiamo.

 

*Docente Unical

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