REGGIO CALABRIA È una conferma rotonda dell’impianto accusatorio la sentenza con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria ha condannato a pene severe anche in secondo grado gli imputati del processo “Epilogo”. Nonostante alcune lievissime riduzioni di pena, i giudici di secondo grado hanno sostanzialmente accolto l’impianto accusatorio sostenuto in primo grado dal pm Giuseppe Lombardo e sposato in appello dal sostituto pg Giuseppe Adornato, distribuendo pene severissime fra le giovani leve del clan Serraino. La pena più alta va a Francesco Russo (del ’73) condannato a 12 anni e 8 mesi, in continuazione con la pena in precedenza rimediata nel processo MareMonti, ma in precedenza punito per il solo procedimento Epilogo con 12 anni di reclusione. Passa invece da 11 anni e 8 mesi a 9 anni e 8 mesi la condanna inflitta ad Antonino Barbaro, difeso dall’avvocato Lorenzo Gatto, mentre è solo di qualche mese lo “sconto” rimediato da Domenico Caccamo e Francesco Sgrò, che passano da 8 anni a 7 anni e dieci mesi, come da Antonio Pirrello che si vede convertire gli 8 anni rimediati in primo grado in una condanna a 7 anni e 8 mesi. Dovranno invece tutti scontare 7 anni e 4 mesi di carcere Giovanni Morabito, ex assessore al Comune di Cardeto, Sebastiano Pitasi, Domenico Russo, in precedenza condannati a 8 anni. Medesima condanna rimediata in appello da Francesco Russo (del ’63), condannato in primo grado a dieci ani e otto mesi. Otto anni e otto mesi dovranno invece scontare Nicola Pitasi, in precedenza condannato a 9 anni e 8 mesi, ed Ivan Valentino Nava, punito in primo grado con 10 anni e 4 mesi, non solo per il reato di associazione mafiosa, ma anche per l’attentato incendiario ai danni del giornalista Antonino Monteleone. Infine passa da 4 a “solo” due anni e sei mesi la pena inflitta a Felice Lavena.
Condanne severe che confermano quanto emerso in primo grado: alla sbarra al processo “Epilogo” non ci sono né ci sono mai stati ragazzi cresciuti in un ambiente disagiato, ma le giovani leve di un clan che, dopo gli arresti e la morte del capo storico don Mico Serraino, è stato in grado di rigenerarsi attraverso gli attuali imputati. È questo il cosiddetto “banco nuovo” del clan Serraino che – dimostrando continuità criminale – ha continuato a sfornare nuovi eredi che si pongono in assoluta linea di continuità con la strada perseguita da nonni, zii, padri. Figure da inquadrare in un contesto criminale complesso, dove convivono una «’ndrangheta di apparenza e una ‘ndrangheta di sostanza», una ‘ndrangheta visibile e una invisibile – come dimostrato dalla sentenza del procedimento “Bellu lavuru” – che non solo differiscono in peso e ruolo ma anche in comportamenti. «La ‘ndrangheta fatta da elementi di vertice, a volte anche invisibili, quando ha bisogno di manifestare sul territorio la propria presenza – ha più volte spiegato il pm Lombardo – si avvale di elementi criminali stabili di cui ha bisogno per realizzare i propri obiettivi». È in questo quadro che a vario titolo si inseriscono gli odierni imputati del processo “Epilogo”, che alla sbarra vede tanto semplici affiliati, come coloro che sono chiamati in un futuro criminale prossimo a svolgere un ruolo rilevante. O che lo sarebbero stati se pesantissime condanne non fossero intervenute a fermarli. (0050)
Alessia Candito
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