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Colpo al clan Lo Giudice, 20 anni di carcere per Luciano

REGGIO CALABRIA Le pene sono più basse rispetto a quanto chiesto dal pm Beatrice Ronchi e – forse a sorpresa – arrivano anche due assoluzioni per gli imprenditori Rocco e Antonio Arillotta, ma sono…

Pubblicato il: 02/06/2014 – 22:00
Colpo al clan Lo Giudice, 20 anni di carcere per Luciano

REGGIO CALABRIA Le pene sono più basse rispetto a quanto chiesto dal pm Beatrice Ronchi e – forse a sorpresa – arrivano anche due assoluzioni per gli imprenditori Rocco e Antonio Arillotta, ma sono comunque condanne pesantissime quelle che il collegio presieduto da Silvia Capone, con Maria Teresa De Pascale e Margherita Amodeo a latere, ha distribuito fra capi e gregari del clan Lo Giudice.

 

LE CONDANNE La pena più alta va a Luciano Lo Giudice, considerato la mente imprenditoriale del clan e per questo punito con 20 anni di detenzione, in luogo dei 30 chiesti dal pm. A suo carico cade la vicenda dell’intestazione fittizia delle ditte di legname degli Arillotta – per questo assolti dall’accusa di essere prestanome di Lo Giudice – ma, suggeriscono le difese, anche il ruolo di capo promotore del clan. Un rebus che bisognerà attendere le motivazioni per sciogliere, come per comprendere quali elementi abbiano pesato a carico dei diversi imputati. Nonostante non arrivi ai 20 richiesti, pesantissima è la condanna inflitta all’ex ufficiale dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, punito con 14 anni e 6 mesi di reclusione più 600 euro di multa, mentre è di 18 anni più 3500 euro di multa, in luogo dei 26 invocati, la pena disposta per Antonio Cortese, considerato l’armiere del clan. Condanne severe sono arrivate anche all’indirizzo di Bruno Stilo e Giuseppe Reliquato, condannati a 16 anni di carcere in luogo dei 25 invocati, come pure per Salvatore Pennestrì, punito con 13 anni di carcere più 3400 di multa, in luogo dei 21 chiesti dal pm in sede di requisitoria. Dieci anni – quattro in meno di quanto chiesto dalla pubblica accusa vanno al nipote di Luciano Lo Giudice, Fortunato Pennestrì, mentre è di 4 anni e sei mesi la pena inflitta all’imprenditore, calabrese d’origine ma milanese d’adozione, Giuseppe Cricrì. Infine, come richiesto dal pm, a Giuseppe Lo Giudice sono stati inflitti 7 anni e 6 mesi di carcere più 2mila euro di multa e 6 anni al noto imprenditore della nautica, Antonino Spanò. Oltre al risarcimento per le parti civili – Regione Calabria, Provincia e Comune di Reggio – i giudici hanno disposto la confisca di quanto già sequestrato, fatta eccezione per le ditte riferibili agli Arillotta, assolti da ogni accusa. Ma non solo. Il Tribunale, su richiesta del pm, ha disposto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza per l’ex comandante del Ros, Valerio Giardina, il suo secondo Gerardo Lardieri, il brigadiere Maisano e altri ufficiali e sottufficiali tutti ascoltati nel corso della lunga istruttoria.

 

L’OMBRA DI NINO LO GIUDICE Una sentenza severa, che arriva al termine di un procedimento funestato dalla controversa, contraddittoria, per certi versi ancora oscura e inquietante collaborazione di Nino Lo Giudice, prima principale accusatore degli uomini della sua famiglia, convertitosi quindi – dopo la fuga del 5 giugno scorso – nel principale accusatore degli stessi magistrati che erano chiamati a gestirlo, per infine proporsi – dopo l’arresto che ne ha interrotto la latitanza – come monosillabico detenuto, ancora incerto sullo sbocco da dare al suo rapporto con i magistrati. E forse anche per questo alla lettura del dispositivo non c’era solo il sostituto procuratore Ronchi che ha sostenuto l’accusa, ma hanno voluto essere in aula anche del procuratore capo Federico Cafiero De Raho, del comandante della Mobile Semeraro e del pm Giovanni Musarò.

 

PRIMA E DOPO? Adesso bisognerà attendere le motivazioni per comprendere in che misura il collegio abbia condiviso e riconosciuto non solo i reati contestati ai singoli imputati, ma anche l’impostazione generale che il pm Beatrice Ronchi ha voluto dare all’inchiesta. Come spiegato in dettaglio nel corso della requisitoria fiume protrattasi per nove udienze, per il pm Ronchi ci sarebbe stato un prima e un dopo nella storia della cosca Lo Giudice. Un prima, che avrebbe garantito ad una famiglia già colpita da condanne per associazione mafiosa anni di sostanziale impunità, e un dopo che di tale impunità ha segnato la fine. «Dalla fine degli anni ’90 in poi, non è stata fatta un’adeguata attività investigativa sui Lo Giudice, nonostante molti dei componenti del clan proprio in quegli anni fossero tornati in libertà – aveva spiegato la sostituto procuratore, ormai da tempo trasferita a Bologna e che con questa sentenza conclude la sua applicazione alla Procura di Reggio Calabria –. Nel frattempo, in città fiorivano le loro attività imprenditoriali, frutto di liquidità in mano a quei figli di mafiosi, che avevano passato gli ultimi anni della loro vita in carcere. Dimenticati i Lo Giudice». È in questo quadro che si sarebbe affermata la figura di Luciano Lo Giudice, come rampante e criminale mente imprenditoriale del clan.

 

IL “NUOVO” LUCIANO Figlio di una famiglia di mafia, ma rimasto “pulito” fino all’arresto del 2009, Luciano sarebbe stato scelto come volto spendibile nel mondo imprenditoriale reggino, destinato a mettere a frutto i patrimoni derivanti da quelle che il pm ha definito le «storiche attività di famiglia», l’usura – praticata anche nei confronti di quei soggetti irretiti con il vizio del gioco, grazie alle macchinette sconosciute al Monopolio che Luciano teneva nel suo bar – e l’intestazione fittizia di beni. Una strategia ormai divenuta classica nelle consorterie mafiose – ha ricordato la Ronchi – per salvare i beni accumulati da sequestri e confische, intestandoli a terzi di fiducia, quali ad esempio parenti incensurati o fidati prestanome. «Le indagini svolte dal gennaio 2008 hanno permesso di accertare l’esistenza di numerosi immobili appartenenti a Luciano ma intestati a terzi, come pure di società di cui Luciano era il titolare effettivo o il socio occulto». Ma per il pm, Luciano non sarebbe stato solo il «manager del patrimonio della famiglia Lo Giudice» – così lo aveva definito in un passaggio della propria requisitoria il pm – ma anche il soggetto utilizzato dal clan per avvicinarsi alle istituzioni, proponendosi come fonte confidenziale per “far cadere” il superboss Pasquale Condello.

 

LUCIANO “LA FONTE” Per accreditarsi come fonte confidenziale – ha spiegato la Ronchi in sede di requisitoria – Luciano si sarebbe avvicinato ai magistrati Cisterna e Mollace, che come lui frequentavano il cantiere nautico di Antonino Spanò, accreditandosi come il fratello del collaboratore di giustizia Maurizio Lo Giudice. «Dal 2003- 2004 – aveva affermato il pm – si cambia strategia, scegliendo di entrare in contatto con rappresentanti istituzionali. E li abbiamo visti sfilare in udienza i personaggi istituzionali che, a vario titolo, hanno avuto un contatto diretto con i Lo Giudice e ci hanno lasciato a tratti sconcertati, o comunque straniti». A suffragare le proprie perplessità – aveva sostenuto la sostituto – sarebbero arrivate anche le parole di Luciano Lo Giudice, più volte intervenuto con dichiarazioni spontanee. Per il pm, «le parole di Luciano a difesa dei magistrati dimostrano rapporti non adamantini». Rapporti che nel caso di Cisterna, sono già stati oggetto di un procedimento conclusosi con un’archiviazione, ma che più volte sono stati evocati dal sostituto procuratore nel tirare le fila dell’inchiesta da cui emerge un ritratto innovativo di Luciano Lo Giudice, al contempo mente imprenditoriale e ponte del clan verso le istituzioni. Un ruolo che non era mai emerso in altri procedimenti – in larga parte già conclusi con rotonde condanne – tanto meno nelle deposizioni degli investigatori – fra tutti il Ros all’epoca comandato dal tenente colonnello Valerio Giardina – che più di tutti sono stati per anni impegnati nell’attività finalizzata alla cattura della primula nera della ‘ndrangheta reggina. Ascoltati come testimoni in diversi procedimenti, tanto Giardina, come il suo secondo, il capitano Ger
ardo Lardieri, hanno sempre spiegato che le fonti confidenziali non hanno fornito un apporto significativo per la cattura del superboss e, soprattutto, che mai alcuna informazione utile sarebbe venuta da appartenenti alla famiglia Lo Giudice, in nessun caso sfiorata dalle indagini riguardanti Condello.

 

NUOVE INDAGINI Affermazioni non veritiere per il pm Ronchi che per loro, come per il brigadiere Francesco Maisano – depositario di quelle confidenze di Luciano Lo Giudice – ha chiesto e ottenuto la trasmissione degli atti in Procura. Allo stesso modo, toccherà alla Dda reggina vagliare la posizione degli altri ufficiali e sottoufficiali del Noe, chiamati in passato a verificare un presunto abuso edilizio nel cantiere nautico di Spanò, e altri testimoni, la cui deposizione non si incastra con il quadro emerso. Testimonianze che adesso altri magistrati dovranno vagliare.

 

Alessia Candito

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