È incontestabile che in questi ultimi anni lo Stato ha individuato il fenomeno mafioso come il più preoccupante “fatto criminale” per cui ha messo in campo strategie di rinnovata efficienza sia quanto agli strumenti operativi impiegati sia quanto alla professionalità dei funzionari chiamati a governare sinergicamente tutte le strategie. Pur tuttavia la ndrangheta continua a crescere esponenzialmente, occupando prepotentemente la fragile economia calabrese ed invadendo quella nazionale fino a minacciare la tenuta democratica di parecchi enti locali. Ho trascorso proprio la metà della mia vita in magistratura ed ho avuto l’opportunità di vedere applicate le varie normative antimafia succedutesi nel tempo dal 1962 ad oggi. Ero all’inizio della mia carriera (anni 60’) a Caltanissetta in un momento delicato per il particolare impegno affidatomi di organizzare un adeguato contesto indiziario a sostegno della misura di prevenzione da irrogare al capo mafia siciliano Giuseppe Genco Russo. Al termine dell’attività lavorativa una grande personalità che mi onorò di sua amicizia, Leonardo Sciascia, mi disse con grande pacatezza e fervida convinzione: «Dottore, la mafia non è solo un fatto criminale». Sono trascorsi tanti anni, tornato in Calabria questa stessa espressione mi è stata ribadita con altrettanta determinazione dal compianto Pasquino Crupi, ultimo rappresentante di una troppo trascurata cultura meridionalistica (da Gaetano Salvemini a Gaetano Cingali, da Tonino Gualascio a Sharo Gambino, che portando ad emersione i fatti tragici che hanno contrassegnato la “Mala Unità” di Del Boca), invitavano la classe politica ad una riflessione sull’opportunità della valorizzazione degli insegnamenti della storia, che indicavano la Calabria sempre destinataria di condotte colonialistiche di depauperamento delle proprie risorse, di una determinante deculturazione, fattori fondamentali per la crescita del rapporto tra mafia e sottosviluppo sociale. La copiosa saggistica in materia finì per essere depositata definitivamente in scaffali di biblioteche di studiosi e la Stato italiano preferì la via della mortificazione costante dei diritti costituzionali delle popolazioni del Sud in favore della salvaguardia della “sicurezza”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Migliaia di giovani e giovanissimi, senza un avvenire lavorativo, blanditi dalle lusinghe degli esponenti di spicco di una ndrangheta, ormai holding mondiale, lobby tra le lobby, riempiono le carceri italiane, mentre il 2% soltanto dei vertici delle varie ndrine sono raggiunti dai necessari contesti probatori da parte della magistratura. È crollata la fiducia dei giovani anche nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine; non regge la tenuta democratica di parecchie Amministrazioni comunali. Non mancano poi testimonianze di “leggi speciali” che consentono di pervenire ad errori clamorosi quanto alla individuazione di responsabilità personali. È inevitabile il richiamo alla legge sulle incandidabilità, alla legge sullo scioglimento delle pubbliche Amministrazioni, agli interventi legislativi in sede penale e processuale con previsioni normative che non hanno prodotto risultati di valore; dall’aumento del carico sanzionatorio, alla creazione di nuove fattispecie penali, dal ricorso alla cultura della premialità alle inutili afflizioni fisiche per i detenuti, all’aumento smisurato dei termini della custodia cautelare ecc. ecc.. È veramente tempo di più radicali riflessioni, recuperando gli itinerari culturali tracciati dal meridionalismo anche di origine calabrese incominciando ad abbandonare gli itinerari dell’antimafia parolaia e marciaiola ed impegnando la classe politica dirigente attuale ad una riflessione più approfondita soprattutto per dissolvere la diffusissima percezione di una Città, bollata per marchio mafioso nella sua totalità. Non posso concludere questa brevissima nota senza richiamare due episodi emblematici che hanno riguardato la mia persona e quella di mio figlio l’avvocato Luigi Tuccio. A causa di una arraffazonata relazione della commissione di accesso, il ministro dell’Interno, per il tramite dell’avvocatura distrettuale locale, ha indicato la pericolosità di mio figlio, quale membro dell’amministrazione comunale (nel giudizio per l’incandidabilità) giacché “il genitore faceva parte di una società impegnata ad assicurare appalti illeciti da parte del Comune in favore della criminalità organizzata locale” (sic!). Non conosco le ragioni “dell’abbaglio”, ma ho reagito a tutela della mia dignità e di quella di mio figlio formulando una citazione per danni nei confronti del ministro dell’Interno. Ma quel che mi indigna e che respingo con sdegno è l’asserzione gratuita contenuta in una sentenza secondo cui mio figlio, che si è alimentato di pane e giustizia, vivendo una adolescenza sotto una mortificante scorta rafforzata per oltre dieci anni (a causa del mio impegno giudiziario antimafia), che ha sentito l’odore acre delle ceneri e delle macerie di un attentato dinamitardo mafioso di una mia casa di abitazione, che non è stato mai eletto nell’amministrazione comunale (cooptato come assessore esterno, proprio per la sua riconosciuta ferrea fedeltà ai valori della legalità) viene indicato come veicolo di trasmissione del virus criminogeno nel Comune di Reggio. Per altro verso, cavalcando la cultura del sospetto e del vieto principio della trasmissibilità degli errori di un soggetto nei confronti degli esponenti familiari, affini e para-affini, una sentenza ha stravolto il senso di un colloquio penitenziario avvenuto in un carcere del Nord tra due soggetti ergastolani, detenuti dagli anni 90’, e della moglie di uno di essi, è stato qualificato come connotato del carattere di “cordialità” con mio figlio che non ha mai visto, né interloquito, né direttamente né indirettamente, con i predetti i quali (come si desume dal testo della conversazione intercettata), hanno avuto necessità di richiedere alla visitatrice notizie sulla identificazione di mio figlio informandosi se per caso egli fosse congiunto dello scrivente, con l’intuibile obiettivo di carpire capziosamente assurdi vantaggi per il loro stato detentivo stante la mia qualità di garante dei detenuti (per altro soltanto con competenza sulla posizione dei detenuti nella casa circondariale reggina). Orbene a fronte della limpida logica interpretazione di tale contesto effettuabile da parte del decidente, emergeva come la ragione della nomina di Luigi Tuccio nella qualità di assessore comunale esterno, nonché il conferimento di incarichi legali alla sua compagna, avvocato Giampiera Nocera, non avevano alcun collegamento né era possibile ricostruire una qualsivoglia interconnessione con il noto colloquio penitenziario tra due detenuti ergastolani e la congiunta di uno di essi. Dicevo del mio quasi mezzo secolo di impegno giudiziario: ho appreso che la tutela della dignità umana, presidio invalicabile di tutte le libertà è compito dei “guardiani delle leggi” e come tale non può essere subordinata a soddisfare differenti esigenze ricollegabili anche alle inefficienze dello Stato ricorrendo a procedimenti speciali connotati da evidenti distorsioni dei meccanismi di acquisizione delle prove (a carattere unilaterale) o peggio ad operazioni ermeneutiche di scarso pregio giuridico.
*Già magistrato emerito della Cassazione. L’autore, inoltre, è il padre di Luigi Tuccio, ex assessore della giunta comunale di Reggio Calabria
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