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Due condanne per l'omicidio del brigadiere Marino

REGGIO CALABRIA Sono Antonio Papalia e Francesco Barbaro i responsabili dell’omicidio del brigadiere Antonio Marino, il carabiniere ucciso in un agguato nel settembre del ’90 a Bovalino, e per ques…

Pubblicato il: 16/06/2014 – 12:53
Due condanne per l'omicidio del brigadiere Marino

REGGIO CALABRIA Sono Antonio Papalia e Francesco Barbaro i responsabili dell’omicidio del brigadiere Antonio Marino, il carabiniere ucciso in un agguato nel settembre del ’90 a Bovalino, e per questo dovranno scontare 30 anni di carcere ciascuno. È quanto hanno stabilito oggi i giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria -dove il procedimento è stato rinviato dalla Cassazione – che per la prima volta sono riusciti a individuare i responsabili dell’omicidio del giovane militare. Cristallino è stato infatti per la Corte l’esito dell’istruttoria, la cui riapertura è stata chiesta dal pg Fulvio Rizzo alla luce di quanto involontariamente rivelato da Agostino Catanzariti, ritenuto storico uomo della cosca Barbaro-Papalia, e Michele Grillo, anziano boss nel corso delle indagini pizzicato dagli investigatori mentre aggiusta voti e preferenze per l’ex assessore pidiellino, Domenico Zambetti.
Intercettati dagli investigatori nell’ambito dell’operazione “Platino”, coordinata dalla Dda di Milano, i due sembrano essersi lasciati scappare quella prova che oltre dieci anni inquirenti e investigatori cercano per incastrare gli assassini del brigadiere. Parlando di tale “Peppe”, Catanzariti dice infatti chiaramente: «Era il migliore di tutta la famiglia… però è stato un pezzo indegno, ché è stato capace di organizzare, gira e volta, e alla fine se l’è cavata lui, è stato lui che l’ha ammazzato». Nel corso della medesima conversazione, sarà sempre lui a fornire i dettagli che renderanno inequivocabile l’identificazione della vittima. «Il movente, perché dice che, nel paese, che perseguitava la famiglia Barbaro e menava sopra i “Castanu” e sopra di lui e di suo padre. Che dopo è stato … deciso per ammazzarlo, l’hanno trasferito e dopo … e là …».
Una conversazione dal significato cristallino per il pg Rizzo, che nelle scorse udienze ha chiesto e ottenuto che venisse acquisita agli atti del processo, ma che per i giudici della Corte non è sufficiente. Per questo Grillo e Catanzariti sono stati chiamati a ripetere in aula quanto affermato in quell’intercettazione, senza tuttavia confermare alcunché, ma di fronte ai giudici è stato chiamato a deporre anche l’ufficiale del Ros che per il Comando provinciale dei carabinieri di Milano, responsabile delle indagini, ha redatto l’informativa.
Inquirenti e investigatori milanesi non hanno esitato a identificare l’omicidio di cui i due parlavano con soddisfazione, nel brutale delitto che ha stroncato la vita al brigadiere che per anni ha fatto terra bruciata attorno ai clan della Locride. Per questo, nonostante fosse stato trasferito, per le ‘ndrine rappresentava un affronto. Un affronto da cancellare. Marino doveva pagare quei cinque anni passati a dare la caccia alle ‘ndrine di Platì, a stanare i latitanti, a non dare pace a chi di quei luoghi si sentiva padrone. E lo hanno aspettato.
Il 9 settembre del ’90, Antonio Marino era tornato a Bovalino superiore assieme alla famiglia per la festa del paese. Era una sera tranquilla di un’estate che non voleva finire. Il paese era in piazza, ma verso mezzanotte tutti si erano spostati verso la periferia per assistere ai fuochi d’artificio. Il brigadiere era rimasto in piazza, assieme alla moglie e al figlio, seduto all’esterno del bar gestito dai suoceri. È lì che il killer l’ha sorpreso, scaricandogli addosso dieci proiettili che avrebbero ferito anche la moglie e il figlio del sottufficiale. I due sopravviveranno a quell’agguato che per il brigadiere sarà fatale. Morirà dopo quindici giorni di agonia. Nonostante il movente fosse chiaro fin dal principio, quell’agguato è rimasto un mistero per oltre quindici anni. Saranno le dichiarazioni del pentito Antonino Cuzzola a supportare quell’inchiesta rimasta per oltre un decennio a prendere polvere negli archivi, ma in sede giudiziaria le accuse del pentito non saranno ritenute sufficienti per arrivare a una condanna né in primo grado, né in appello.

 

Alessia Candito

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