«Eh, io l’ho visto, che ho guardato le telecamere che non è venuto ed è venuto alle sette e mezza le otto. Per questo ti dico stai attenta, voglio vedere cosa fa se fa cose buone o fa cose male». Un grande fratello criminale. Un sistema di telecamere che permetteva al clan di monitorare quanto succedeva negli esercizi commerciali sparsi fra Roma e Latina – dall’afflusso dei clienti alle presenze, dalla puntualità di dipendenti agli eventuali ammanchi di cassa – direttamente dalla Piana di Gioia Tauro. È questo il sistema attraverso cui Giuseppe Galluccio – uomo delegato dai Molè alla gestione delle attività imprenditoriali del clan nel Lazio – controllava che uomini e donne che aveva in precedenza dislocato sul posto compissero alla lettera le sue direttive. O meglio quello che lui impartiva nell’interesse del clan. Già inciampato nel processo Tirreno come uomo dei Molè, Galluccio – si legge nell’ordinanza – ha in quel casato una sua storia, emersa a più riprese nell’ ambito delle indagini che hanno interessato la famiglia. Sebbene per i trascorsi giudiziari non potesse assumere il controllo diretto delle attività della famiglia nel Lazio, è «l’unico – sottolinea il gip – che, in relazione ai citati esercizi commerciali, risultava essere titolare di pieno potere dispositivo, sia verso i formali intestatari sia verso i gestori, da lui incaricati».
Il sistema che lo stesso Galluccio aveva ideato era semplice, ma terribilmente efficace. Per gestire per conto dei Molè esercizi commerciali, bar e sale giochi che ospitavano le slot si affidava a insospettabili soggetti che, chiaramente, fungevano da intestatari fittizi. «Si aveva modo, dunque, di delineare una vera e propria gestione piramidale delle lucrose attività commerciali – spiega il gip – alla base della quale si trovavano soggetti incensurati, insospettabili, anche in tal caso di nazionalità straniera (tutti accorgimenti adottati proprio per allontanare da sé il sospetto di chi fosse il reale dominus della attività commerciali), i quali facevano riferimento al Galluccio il quale, a sua volta, faceva riferimento ai Molè direttamente o per il tramite del citato Mazzitelli», cugino diretto dei Molè.
Una struttura funzionale alla salvaguardia degli uomini direttamente riconducibili al clan, ma che ha dato vita a situazioni paradossali – tutte ascoltate e annotate dagli investigatori – come la disperata richiesta di essere assunto nel bar di cui era formalmente titolare che Galluccio riceve da Chrystian Dudzinski, o i rimbrotti del commercialista Vincenzo De Luca, che con l’uomo che i Molè hanno delegato alla gestione delle slot non esita a lamentarsi per le lungaggini riscontrate nell’approntare i documenti a lui necessari e per la percepita estraneità dei diretti interessati e del personale verso le problematiche di natura amministrativa e contabile. «Ma, d’altra parte – chiosa il gip – non poteva essere diversamente, atteso come il loro fosse un ruolo meramente formale e per la cura di simili.. dettagli, fosse di competenza di altri, i reali gestori cioè».
Ma – si legge nelle carte – Galluccio non si limitava a gestire semplicemente gli esercizi commerciali che ospitavano le slot, ma tutte le aziende riferibili alla Games Gioia sia quelle riconducibili alla Power Play, che per gli inquirenti non sono che «gli strumenti mediante i quali il Galluccio ed i Mazzitelli operano nel remunerativo settore delle slot machines». E se ai Mazzitelli, cugini diretti dei Molè, Galluccio si dimostra subordinato, per volere del clan in ogni caso «il Galluccio curava gli interessi in area laziale di tutte le ditte riconducibili allo stesso ed interessate al settore e, in particolare, si preoccupava della ricerca di nuovi siti sia per gli apparecchi gestiti dalle menzionate società, a lui direttamente riferibili, sia per quanto concerne quelli che erano gestiti dalla Md Trasporti direttamente riconducibile, invece alla famiglia Mazzitelli». Un compito che Galluccio non svolgeva in splendida solitudine. A coadiuvare il punto di riferimento della cosca Molè nel mondo delle slot erano Claudio Gioè, formalmente gestore della sala giochi Slot Gioia e Mirela Catalina Plesa, inizialmente dipendente di uno dei bar caduti sotto il controllo del clan, quindi fattasi strada come persona di fiducia di Galluccio nel Lazio. È a loro che competeva l’ordinaria gestione delle slot machines – dalla verifica di funzionamento ed incassi, ai sopralluoghi presso nuovi locali – installate tra le province di Roma e Latina. Un’infinita rete di macchinette che però non esauriva il patrimonio del clan disseminato in sale e giochi e bar del Lazio.
Anche i fratelli Molè, figli di don Mommo, avevano un interesse preciso e specifico nella gestione delle slot non “assegnate” a Galluccio, che per il più giovane dei rampolli del boss diventeranno anche la prima vera attività criminale. Con tanto di benedizione paterna. È il figlio maggiore Antonio, appena uscito di galera, a sottoporre al padre la questione: «Ma questo testa non ce l’ha .. .( rivolgendosi al fratello minorenne ndr) . . . io quando sono uscito … io gli ho detto “tu che vuoi fare? Se tu mi dici ‘la scuola non fa per me’, io qua io la … se tu non vuoi andare a scuola, ti devi metti a lavorare che c’è Polito (Ippolito Mazzitelli ndr) che lavora con queste cose dei videogiochi. (..) io ti do la chance di scegliere … e dopo che scegli, se non ti piace, ti do la chance di cambiare … ma che stai sopra il divano come un tracannato toglitelo dalla testa”». Una questione che don Mommo analizza, valuta e soppesa, chiedendo al figlio maggiore: «E quando se ne va a Roma là che fa?”» Ad Antonio, non servono neanche le parole per rispondere. Si limita a mimare velocemente un conteggio di soldi. Nel giro di poco, il fratello minore, appena quindicenne, verrà inserito nella gestione delle slot. E oggi, qualche anno dopo il gip del Tribunale dei minori, ha elementi a sufficienza per aggiungere anche questa alla lunga serie di imputazioni per le quali ha ordinato l’arresto del giovane boss.
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