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Locri, chiesti 17 anni per il presunto boss

REGGIO CALABRIA Un ribaltamento dell’assoluzione rimediata in primo grado dal principale imputato, Salvatore Giuseppe Cordì, ritenuto colpevole e dunque da condannare a 17 anni di reclusione, l’ass…

Pubblicato il: 25/06/2014 – 16:45
Locri, chiesti 17 anni per il presunto boss

REGGIO CALABRIA Un ribaltamento dell’assoluzione rimediata in primo grado dal principale imputato, Salvatore Giuseppe Cordì, ritenuto colpevole e dunque da condannare a 17 anni di reclusione, l’assoluzione di Vincenzo Cece, in precedenza punito con 1 anno e sei mesi di carcere, e la conferma delle condanne in precedenza rimediate dagli altri imputati. Sono queste le richieste del sostituto procuratore generale Adriana Fiminani al termine della requisitoria al processo Shark, scaturito dall’inchiesta che ha svelato il giro di usura gestito dal clan Cordì a Locri, per lungo tempo protetto dal silenzio delle stesse vittime. Ad aprire una breccia nel regno di sopraffazione e omertà imposto dal clan erano state al contrario proprio le denunce di due imprenditori finiti nella morsa dell’usura, Rocco Rispoli e Luca Rodinò, le cui rivelazioni hanno permesso a inquirenti e investigatori di ricostruire la rete del potente clan della Locride. Ma l’indagine, che si è avvalsa anche delle dichiarazioni di due pentiti, Carmelo Novella e Bruno Piccolo, non si è limitata a svelare il giro di usura gestito dalla cosca, ma ha anche confermato che il clan Cordì continua a dettare legge a Locri, dove rimane dominus indiscusso non solo delle estorsioni a piccole e grandi realtà commerciali, ma anche degli appalti pubblici. L’ospizio, il palazzetto dello sport e la scuola magistrale – è emerso nel corso dell’istruttoria – sarebbero finiti in mano agli uomini dei Cordì che, taglieggiando la ditta aggiudicataria, o accaparrandosi direttamente o in sub-appalto i lavori commissionati. Un quadro confermato dalla valanga di condanne rimediate dagli imputati tanto nel procedimento con rito abbreviato come in quello ordinario – oggi giunto in appello – ma da cui si era salvato proprio Salvatore Giuseppe Cordì, considerato al vertice dell’omonimo clan, ma in passato graziato dall’accusa di associazione mafiosa. Per i giudici di primo grado, infatti, Cordì andava assolto perché, nonostante la fitta corrispondenza con picciotti e gregari del clan rimasti fuori dal carcere, non ci sarebbe stato «alcun comportamento materiale che possa essere apprezzato, se non come attivo contributo alla vita dell’associazione, come affermazione all’esterno della disponibilità a continuare a contribuire agli scopi della cosca nell’eventualità della scarcerazione».

Un’impostazione duramente contestata dalla pubblica accusa che, proprio sulla base delle missive spedite dal carcere e delle contestuali intercettazioni, ha ricostruito non solo quello che considera il ruolo di vertice di Cordì, ma anche la strategia sviluppata dal clan dal 2010 in poi, quando la tregua con i Cataldo si sarebbe cementata nella comune manipolazione delle prove nei procedimenti in corso. I clan avrebbero infatti concordato di negare in sede processuale qualsiasi elemento che corroborasse la tesi della faida, ricostruita dalla Dda reggina. Un prezzo troppo alto da pagare per le due consorterie, così come per le altre ‘ndrine della zona i cui affari venivano disturbati dalle pressanti attenzioni degli inquirenti, messi sull’avviso dalla lunga scia di sangue che ha interessato la Locride. Per questo, dopo decenni di omicidi, cosche storicamente rivali come i Cataldo e i Cordì avrebbero deciso di scendere a patti. Per questo avrebbero chiesto a Domenico Oppedisano di scagionare gli autori dell’omicidio di Salvatore Cordì, per il quale Antonio Cataldo – considerato il capo indiscusso dello schieramento avversario – era stato individuato come mandante. Un’incomprensibile «infamità» – come la definirà lo stesso Oppedisano interrogato dai pm – che lo indurrà a decidere di collaborare. Ma nel medesimo solco si inserirebbe anche l’altrimenti incomprensibile cartolina di auguri che Salvatore Cordì proprio nello stesso periodo invia a Tommaso Costa, considerato boss dell’omonimo clan, storico alleato dei Cataldo. Per i pm una prova dell’avvenuta pacificazione, che lo stesso Cordì avrebbe comunicato a tutte le consorterie coinvolte nella guerra che ha insanguinato Locri e Siderno, ma anche una prova del suo ruolo di boss. (0030)

Alessia Candito

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