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OPERAZIONE "MEDITERRANEO" | Il boss ragazzino

REGGIO CALABRIA Il suo nome compare negli atti giudiziari, ma non può essere rivelato. Leggi e normative concedono ancora la possibilità di redenzione e oblio a quel ragazzino svogliato che si è tr…

Pubblicato il: 25/06/2014 – 11:22

REGGIO CALABRIA Il suo nome compare negli atti giudiziari, ma non può essere rivelato. Leggi e normative concedono ancora la possibilità di redenzione e oblio a quel ragazzino svogliato che si è trovato davanti alla scelta di frequentare con impegno la scuola o studiare da boss. Ma la scelta è stata quella sbagliata. Lui a scuola non ci è mai voluto andare. Del resto, il presunto componente del clan Molè ha già iniziato a studiare da capo. Ha poco più di 15 anni, ma – si legge nell’ordinanza – si sarebbe impegnato nel «sodalizio». Dopo l’omicidio di un parente e alcune operazioni, ha iniziato a sgomitare per rivendicare il suo ruolo. È dotato «delle stimate del capo», sottolinea il gip. Lo sanno quelli che gli stanno attorno, a partire dalla sua ragazza, che esita ad organizzargli una festa di compleanno in un noto lido perché «non vorrei che lì ci fossero altre persone che, magari, gli danno fastidio… capito? È meglio se si faceva in una casa, dove eravamo solo noi, capito quello che ti voglio dire?». Anche lei, quando viene intercettata, è poco più di una ragazzina. Eppure sa che ci sono cose che non può fare, locali che è meglio non frequentare, persone che è meglio non incontrare. Vive consapevolmente una cattività autoimposta, impensabile per un’adolescente, ma è fiera nell’annunciare al braccio destro del suo giovane compagno che non sa cosa mettergli sulla torta di compleanno: «Io avevo pensato dall’inizio di mettergli la foto di Al Pacino e di scrivergli “il capo sono io”».
Anche il braccio destro, che segue il ragazzino come un’ombra, sa che sta guardando le spalle a un giovane capo. Non è molto più grande di lui, ma gli fa da autista, da spalla, da secondo. «La frequentazione tra i due – si legge nelle carte – risultava infatti sostanzialmente quotidiana: decine i contatti finalizzati alla pianificazione di incontri de visu, in strada e/o a casa dell’uno piuttosto che dell’altro (…) Molteplici risultavano altresì le conversazioni censurate». Conversazioni che potrebbero essere quelle di due adolescenti comuni, in qualsiasi parte d’Italia o del mondo. Ma il rapporto fra i due non era questo. Il gip spiega che il presunto boss «si rivela vero e proprio capo operativo della cosca» in attesa della liberazione di un parente in cella. È lui a fornire al braccio destro il proprio numero di telefono, «intimandogli di non darlo neanche a Dio, gli comunica, in via esclusiva e riservata, la sua presenza a Gioia Tauro». Il collaboratore, poi, «gli fa da autista e, se non può provvedere alle di lui esigenze, si attiva con altri giovani perché possano soddisfare le sue istanze, opera commissioni nell’interesse del minore, trasmette messaggi per suo conto, manda imbasciate. E, a riprova di quanto si dice, viene contattato da vari soggetti per interloquire» con il ragazzino. «Da buon sodale, poi, appreso di un controllo della polizia giudiziaria nei suoi confronti, si attivava immediatamente per sapere se avesse bisogno di qualche cosa». Un rapporto di subordinazione che sovrasta l’amicizia fra i due giovani e si impone soprattutto quando il piccolo si trasforma nel capocosca pro tempore». Il braccio destro lo seguirà a Roma, dove lo avrebbe coperto nella gestione del giro di soldi proveniente dalle macchinette, e, su richiesta del giovane capo, avrebbe individuato, acquistato e gli avrebbe recapitato due fucili semiautomatici.
Nella capitale, il giovane rampollo avrebbe avuto compiti ben precisi. Avrebbe gestito e coordinato tutti i proventi che arrivavano dalle slot che il clan era riuscito a piazzare, come quelli che arrivavano dal traffico di droga, avrebbe gestito la rete di spacciatori, con i quali non avrebbe esitato a progettare una serie di rapine finalizzate alla raccolta dei fondi necessari per avviare nuovi giri di spaccio. «Forte del ruolo acquisito e del casato di appartenenza – annota il gip –, laddove ritenuto opportuno, e soprattutto in fase di recupero dei proventi dei traffici in corso, metteva da parte ogni spirito “collaborativo” non esitando a dare disposizioni e/o a richiamare all’ordine il soggetto di turno».

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it

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