REGGIO CALABRIA C’è anche un vigile urbano reggino fra i soggetti cui la Procura di Reggio Calabria ha notificato un avviso di conclusione indagini nell’ambito dell’inchiesta sul tentato omicidio di Paolo Vadalà, avvenuto a Cardeto la sera del 18 marzo scorso. Se per quell’episodio è già finito in manette il quarantatreenne Martino Fotia, il pm Rosario Ferracane ha deciso di perseguire anche quelli che ritiene responsabili di quella «cortina di omertà e chiusura nei confronti delle forze dell’ordine e della stessa autorità giudiziaria» che nelle prime fasi ha ostacolato le indagini, permettendo a Fotia di sottrarsi alle ricerche. È dunque l’accusa di favoreggiamento personale quella che viene contestata al vigile urbano Charles Manti, come a Francesco Doldo e Giovanni Fotia, cugino di Martino, le cui lacunose testimonianze sono state raccolte nella prima fase di indagini, seguita a quell’alterco che il 18 marzo stava degenerando in tragedia. Anche loro quella sera hanno sentito Paolo Vadalà e Martino Fotia litigare nella piazza principale del paese, sul sagrato della chiesa di San Pietro e Paolo. E nessuno a Cardeto, paese di poco più di mille anime, ha avuto difficoltà a riconoscerli. Fra i due – si sa – non corre buon sangue. Per Fotia infatti, il trentottenne Vadalà è il responsabile di una serie di danneggiamenti a diverse autovetture che si sono registrati nell’ultimo anno. I toni sono alti, volano parole grosse, che si trasformano in spintoni, schiaffi, pugni. Poi spunta una pistola e la situazione degenera. Il quarantatreenne Martino Fotia spara cinque colpi contro Vadalà, che miracolosamente riesce a sfuggire ai proiettili, lanciandosi in una folle corsa tra le vie del paese, fino ad arrivare al bosco. Ma questo i carabinieri lo scopriranno solo 48 ore dopo, quando si presenterà in piena notte alla stazione di Cardeto. Ai militari racconterà quello che da due giorni tentano di scoprire. Invano. Perché quando a lite da poco conclusa si presentano in piazza a Cardeto, nessuno sa niente, nessuno ha visto niente e qualche provvidenziale manina ha provveduto anche a far sparire i bossoli. I carabinieri ci provano a ricostruire l’accaduto. Ascoltano prima una fonte confidenziale, quindi contattano informalmente Charles Manti, agente della polizia Municipale di Cardeto, ma nell’immediatezza quelle che ottengono sono solo parziali ammissioni. Sì, c’è stata una lite. Sì, si sono sentiti dei colpi, ma forse potevano essere dei petardi. Più in là non si va. Solo il giorno dopo, formalmente sentito a sommarie informazioni, l’agente inizierà a confermare le prime ricostruzioni, seppur edulcorandole – si sottolinea nel fermo – con «imbarazzanti reticenze». Di fronte ai militari, Mani ammette che quella sera si trovava all’interno di un bar vicino alla piazza, quando ha sentito 4-5 colpi di che gli «facevano pensare» potesse trattarsi di colpi di arma da fuco, ma – sottolinea – avvicinatosi al punto da cui presumeva arrivassero non avrebbe notato bossoli o cartucce, o altre tracce da «ricondurre ai presunti colpi di arma da fuoco». C’era – dice ai militari – solo un gruppo di persone che parlavano. Dichiarazioni «palesemente reticenti sotto molteplici profili» si legge nel fermo, che Manti procederà integrare solo a distanza di oltre dodici ore, quando improvvisamente ricorderà di non conoscere i rapporti tra il Fotia ed il Vadalà, ma di sapere che Vadalà era poco benvoluto al contrario di Fotia.
Le prime informazioni Più utile agli investigatori sarà Martino Megale, che ai militari confermerà di aver ascoltato dall’interno del bar le voci di Martino Fotia e Vadalà, chiaramente impegnati in un’accesa lite, quindi di aver udito, dopo alcuni minuti, «5 botti che sembravano fossero dei petardi», ma di aver avuto «la netta sensazione che si trattasse di colpi di arma da fuoco», presumibilmente una pistola. Uscito immediatamente dal bar avrebbe visto un gruppo di persone allontanarsi rapidamente, ma – mette a verbale – non avrebbe distinto i due uomini che in precedenza aveva sentito litigare, mentre nei pressi della chiesa «una voce allarmata diceva che Martino aveva sparato a Paolo». Ma è soprattutto una l’informazione che preoccupa gli investigatori: da quella sera Megale afferma infatti di non aver più visto né Fotia né Vadalà. Il timore che si diffonde fra i militari è che la lite si sia conclusa tragicamente e che Vadalà si sia dato alla macchia. Ma terrorizzato, quarantotto ore dopo quell’alterco, è lo stesso Vadalà a presentarsi dai Carabinieri in piena notte per sporgere denuncia.
Il racconto della vittima Racconta che quella sera c’era stato uno scontro con Fotia, una brutta lite degenerata anche in rissa, ma che dopo l’intervento di alcune persone – Giovanni Fotia, Pietro Casile, Sebastiano Fotia e Domenico Fotia – la situazione sembrava essere tornata alla calma. «Tra me e Fotia Martino – racconta ai militari – vi è una “vecchia antipatia”; pur non essendosi verificati, anche in passato, episodi particolarmente rilevanti (che io ricordi, prima del 18.03.2014, non sono mai venuto alle mani con il Fotia ed è invece successo che ci siamo scambiati qualche parolaccia ed abbiamo avuto per futili motivi qualche lite verbale), l’antipatia nasce, a mio avviso, dal fatto che lui – essendo un po’ più grande di età di me – ha sempre avuto nei miei confronti un atteggiamento da arrogante e quasi di superiorità, come se sapesse tutto lui; questo atteggiamento mi ha sempre dato molto fastidio». Nulla dunque a suo dire lasciava presagire tale degenerazione. Eppure, racconta ai militari, nonostante la lite fosse stata sedata dai suoi parenti, «improvvisamente il Fotia Martino ha messo la mano sulla cintola, ha tirato fuori una pistola (di un colore più chiaro rispetto al nero, con un manico marrone credo in legno e con la punta della canna rotonda e non squadrata), ha “scarrellato” (avendo fatto il militare mi sento di dire che si tratta di una pistola semi-automatica) e, tenendola ferma con due mani all’altezza dello stomaco, ha sparato – da una distanza di non più di 4-5 metri – un primo colpo contro di me ad altezza d’uomo; io, prima che sparasse, ho avuto la prontezza di riflessi di allontanare da me prima Domenico e poi Sebastiano Fotia; il colpo non mi ha preso ed è passato vicinissimo a me ed in particolare alla mia sinistra (io stavo proprio di fronte al Fotia Martino), rischiando di colpire anche uno dei suoi zii. Dopo il primo colpo ho capito che mi voleva realmente ammazzare ed allora per salvarmi la vita ho incominciato a correre (anche a zig zag) in direzione di piazza Felice Romeo».
La fuga Impossibile non vederlo, racconta Vadalà, «sono pure passato di corsa davanti a due bar del paese che erano aperti e pieni di gente». Ma anche la fuga – stando al racconto del trentottenne – non avrebbe fatto recedere l’aggressore dal progetto di ucciderlo: «Sentivo – racconta – i passi del Fotia Martino che aveva iniziato ad inseguirmi e continuava a spararmi contro altri colpi di pistola (in totale, oltre al primo colpo che ho appena descritto, me ne ha sparati contro almeno altri 5-6); io correvo come un pazzo ed appena sono arrivato in piazza Felice Romeo poco prima di prendere la discesa di via Fontana Vecchia ho visto con la coda dell’occhio un’ogiva (che non so se fosse direzionale o di rimbalzo) passava alla mia sinistra all’altezza del polpaccio». Dopo essere sfuggito al suo aggressore, per due giorni – riferisce Vadalà – si sarebbe nascosto nel bosco per paura di ritorsioni: «Ho camminato per ore per verso le campagne della parte alta del paese di Cardeto, cercando di nascondermi in quanto avevo paura che se fossi tornato in paese Fotia Martino avrebbe potuto tentare di ammazzarmi nuovamente. Inizialmente avevo pensato di nascondermi per 48 ore e poi di tornare in paese».
Le prove p
arlano, i testimoni no Un racconto confermato dal rinvenimento di alcuni frammenti di ogiva nel punto indicato da Vadalà come luogo dell’aggressione. Per il pm Rosario Ferracane si tratta di «un formidabile riscontro oggettivo al narrato della persona offesa e delle altre persone sentite a sommarie informazioni», ma anche la conferma che «il mancato rinvenimento di altri frammenti, e soprattutto dei bossoli, sia da attribuire in via esclusiva ad un’attività di “bonifica” effettuata nell’imminenza del fatto delittuoso da soggetti che hanno favorito l’odierno indagato». Nessuna conferma arriverà invece dai testimoni oculari di quella sera, che o si avvarranno della facoltà di non rispondere o – annota il pm – rilasceranno «dichiarazioni palesemente false e reticenti, cadendo peraltro spesso in contraddizione, oltre a riferire circostanza inverosimili e che si pongono in stridente contraddizione con quanto indicato» dalla vittima. (0030)
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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