Il ricorso alle primarie, fatta eccezione per la scelta dei candidati a sindaco ove le coalizioni sono il riassunto di larghissime intese, sembra essere divenuto più un vezzo che uno strumento di esercizio della democrazia. Anzi, sotto alcuni aspetti, è tutt’altro. Nel sostenerle, quale modalità ordinaria per selezionare l’attrattore del più ampio suffragio, si sprecano occasioni utili per sapere cosa fare e si divide il consenso. Quello buono, ben lontano dalla sua formazione c.d. “guidata”, caratterizzata dal voto organizzato degli eserciti delle clientele e dei reduci dei vecchi metodi. Così facendo si evita ciò che, invece, si impone nel rispetto del’intelligenza dei cittadini. Si dribbla il dovere di sottoporre il programma di governo al giudizio “preventivo” dell’elettorato di parte, che per vincere deve divenire il più allargato possibile. Quel programma attraverso il quale partecipare alla collettività interessata cosa si voglia fare del territorio in senso lato, per il quale v’è contesa elettorale. Di cosa si propone per accelerare la sua economia, per creare le occasioni di lavoro, per ripristinare la legalità e l’esigibilità dei diritti sociali, ma anche quelli civili spesso vilipesi dalla violenza esercitata sia nella sfera pubblica che privata. In una tale ottica, a differenza di come invece sta divenendo, avrebbe senso l’appuntamento agonistico, ove realizzare un set concorrenziale delle proposte da misurare in relazione alle aspettative della società, eretta a “giudice” interessato della verosimiglianza del progetto politico, sposandone – di conseguenza – le responsabilità relative. Non solo. Costituirebbe l’occasione per sottoporre a giudizio collettivo i sogni dei candidati, spesso acceleratori delle teorie nostalgiche dei partiti, sempre di più a secco di idee di governo innovativo. Dunque, un ritorno a Berlinguer che, a dire di Eugenio Scalfari, «aveva la capacità di captare la realtà riuscendo a creare un sogno», del quale la politica ha bisogno per distinguersi e attrarre il più sano consenso, oggi impedito anche dagli “urlatori” di nuova generazione.
Dunque, un programma chiaro e comprensibile da sottoporre ai cittadini, quale estrinsecazione del sogno del candidato, da contrapporre alla logica del mero pedigree, cui troppo spesso si è fatto e si tenta di fare ancora riferimento. Ricorrendo ad un siffatto metodo si concretizzerebbe il miracolo renziano, che riconosce la fine delle rendite di posizione (peggio, quelle assicurate dagli eserciti) e la necessità di riconquistare i voti volta per volta. Così facendo si conquisterebbe il consenso del più diffuso azionariato sociale su ciò che si vuole fare e si metterebbero da parte i nani delle idee e i giganti della litigiosità interna. Questi ultimi difficili a sradicarsi, proprio perché il vecchio non accetta il ricambio che costituisce la svolta, la componente essenziale per il corretto esercizio della democrazia costruttiva. Da qui, a causa di questo limite, che contrasta con il percorso di necessario rinnovamento della politica e del suo modo di essere percepita, vengono ad affacciarsi candidature che sarebbero ovunque impresentabili. La gestione della res pubblica ha bisogno di tutt’altro. Proprio per questo necessita di un ceto politico giovane ma esperto. Il confronto interistituzionale cui è chiamato il Presidente di una Regione è di difficile frequentazione, specie quando la burocrazia al seguito non ha fornito per anni una prova esaltante di se stessa. Una difficoltà, questa, che in Calabria accresce in progressione geometrica i sintomi dell’inadeguatezza. Qui, la politica è in mano alle “ditte”, attive da decenni ma (fortunatamente) in caduta di “fatturato”. Esse continuano ad esercitare l’arte del dividersi le rappresentanze nelle istituzioni pubbliche mediante occupazioni non propriamente esaltanti. Gli asset parentali sono gli obiettivi di chi esercita la politica, quella che si continua a definire impropriamente tale. Le lobby interne (intendendo per tali le storiche “ditte”) fanno da padroni, sia da una parte che dall’altra. I grillini stanno imparando a riconoscere i giochi e sono abili ad intervenire in contropiede.
Se si continua così, tra le prepotenze di pochi e l’incertezza dei tanti, il prossimo governatore sarà grillino. Occorre riparare, e nel breve. Necessita conquistare l’elettorato che, in Calabria, è in libera uscita. Per conseguire un tale intento, piuttosto che misurarsi tra i nomi lo si faccia sui sogni, sempreché alcuni abbiano ancora la capacità di farli. Il sogno contro l’incubo, che affligge i calabresi da decenni, è la ricetta vincente! Senza sogno e con carte d’identità d’annata si sta a casa! Un sogno concreto che distingua e caratterizzi i candidati, al punto tale da sapere chi sono e cosa vogliono. Ove dovrà essere rappresentato il rapporto che si riterrà di istituire con l’Unione Europea alla ricerca delle nuove occasioni di crescita. L’impegno di stressare positivamente l’utilizzo concreto dei relativi fondi comunitari, finalizzato ad una crescita ordinata e reale, sino ad oggi impedita dall’insipienza e dalla disonestà. La sanità che si vuole. Il turismo che si immagina. La politica dei rifiuti e dei trasporti pubblici locali che, rispettivamente, si intende seguire e realizzare. La cura del territorio. L’uso del porto di Gioia Tauro, quale cancello aperto dell’Europa sul Mediterraneo. Insomma, che contenga tutto ciò che sia utile ai calabresi per decidere la qualità del loro futuro.
* Docente Unical
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